C’era un tempo, verso la fine degli anni Settanta, in cui il Napoli pareggiava. Sempre. E sempre zero a zero. All’epoca le informazioni circolavano molto più lentamente, così nei pomeriggi domenicali capitava che qualcuno chiedesse ansioso: “Il Napoli che ha fatto?” La risposta era sempre la stessa: “Zero a zero”. Il commento era altrettanto invariabile: “Uà, n’atu zer e zer”. Sembrava una condanna, una persecuzione. Quella frase per me era diventata un’unica parola: “Natuzerezer”.
A un certo punto, da grande, mi sono convinto che il mio ricordo fosse falsato, non erano possibili tanti zero a zero. Sono andato a controllare. Dal ’78 all’80, in 60 partite di campionato, il Napoli aveva pareggiato 20 volte per zero a zero. Era tutto vero.
Così, quando mio padre mi portava allo stadio, mi sedevo sui gradoni e dicevo a me stesso: “Speriamo che oggi non facciamo Natuzerezer”.
Tutta questa premessa per dire che sicuramente anche in quel pomeriggio di febbraio, 1981, giorno di Napoli-Udinese, io rivolsi questa silenziosa preghiera agli dei del pallone. Il Napoli quell’anno era forte, c’era Krol che sembrava il principe azzurro, alto, bello, elegante e autorevole. Attorno a lui, una difesa ferrea, con Castellini in porta, Ferrario e Bruscolotti in marcatura, Marangon terzino fluidificante. Restavamo però una squadra sparagnina, pochi gol subiti, ma anche pochi segnati. L’attacco in effetti non era memorabile. C’era Pellegrini che faceva la sua parte, ma Damiani si ammuinava tanto e concludeva pochissimo. Dietro di loro, da trequartista, il mio idolo Musella, vent’anni, napoletano di grande talento e di grande capasciacqua.
Però, quel pomeriggio con l’Udinese dovevamo vincere. Eravamo addirittura in corsa per lo scudetto, partita dopo partita la città cominciava a crederci, ci stavamo abituando a fare almeno un golletto. Ma i minuti passano invano. Nel primo tempo il loro portiere Della Corna para tutto, scatenando scontate ironie sul suo nome (in quell’occasione appresi il significato della parola “scurnacchiat’”). Nel secondo tempo, lo scornacchiato continua a prenderle tutte, il pubblico è esasperato, l’eccitazione diminuisce e la frustrazione cresce.
Mancano ormai una ventina di minuti alla fine quando Luciano Marangon, famoso sciupafemmine veneto, si lancia sulla sinistra e crossa lungo. Pellegrini e Damiani non ci arrivano, la palla sembra destinata a morire oltre il secondo palo, quando da dietro a tutto e tutti sbuca un omino. Trattasi di un discreto mediano, si chiama Guidetti Mario, il suo soprannome è “Tortello” perché fisicamente è basso e tarchiato. Lui però su quel pallone ci può arrivare, perché “si è inserito coi tempi giusti”. E infatti ci arriva e colpisce. Di testa, manco fosse Giggiriva. Ora, vedo che di questi tempi va di moda raccontare il boato del San Paolo, un suono “che orecchio umano raramente ascoltò”. Allora cambiamo senso e passiamo alla vista: oltre ai classici abbracci, alle bocche spalancate, ai pugni stretti e rivolti al cielo, vidi un signore di mezza età appoggiato alla balaustra, quasi ripiegato su se stesso, con gli occhi socchiusi. Sussurava qualcosa, una specie di litania: “E’ ‘a vota bbona, è ‘a vota bbona”. Si sbagliava. Lo scudetto sarebbe arrivato solo sei anni dopo.
Però, da quel giorno sono passati trent’anni, e ogni volta che giochiamo con l’Udinese io penso a Tortello Guidetti e mi rendo conto che gli voglio ancora bene, perché mi ricordo di quel pomeriggio in cui mi evitò Natuzerezer.
Giulio Spadetta