Avevo compiuto da poco due anni quel 5 Luglio 1984. «Buonasera napolitani» – furono le Sue parole. Non ricordo, troppo piccolo per poter conservare anche solo una piccola sensazione. Eppure anch’io ero lì quel giovedì pomeriggio, nel catino del San Paolo, con gli altri 60.000 e passa cuori a battere per l’arrivo del più grande campione della storia del calcio. Mio padre racconta che l’ingresso costò mille lire ma che qualche sera prima corremmo per le strade ad assicurarci le prime copie notturne dei giornali dove c’era scritto a caratteri cubitali: MARADONA è DEL NAPOLI! Per Diego c’è stato un amore sconfinato e collettivo, eppure come succede ai santi ognuno ha un proprio rapporto personale e particolare con la divinità. Per il sottoscritto è stato una macchina della felicità come pure un succedaneo infallibile delle memorie d’infanzia. Ogni domenica, ogni Suo gol, ogni partita posso abbinarla ad un momento, ad un giorno, ad un attimo della mia esistenza. Ai suoi gol del San Paolo si sovrappongono i miei delle partitelle di strada, piroette che si concludevano calciando il pallone fra due pietre o due cartelle, giubbini o qualsiasi cosa che riuscissimo a trovare per delimitare due pali, una porta. E ogni Domenica mattina quella specialissima e particolare ansia in attesa della partita. I divani, la radio, le urla, le speranze, quel nome annunciato dal radiocronista che presagiva già una grande giocata, una magia, la felicità. Tutta la prima vita è scandita da Diego. Come quella sera d’inverno del 1986 quando l’amore era quasi cosciente e affiorava con i primi zampilli: “costrinsi” mio nonno a comprarmi il completino numero 10 sul retro, Buitoni davanti. E mio nonno, per cautelarsi, comprò quello di lana.. che ora non se ne fanno neppure più. Conservo quella mia prima maglia numero dieci come una reliquia. E così una semplice maglietta abbina ricordi e incrocia persone distanti e vicine. Quanto amore e quanta pena è costato Diego. Come quando sui giornali comparivano quegli atroci titoli “Maradona muore” e io, ormai grande, piangevo e mi dicevo a mente: «Non è possibile, ce la farà pure questa volta». E lui si rialzava e ritornava sé stesso come tante volte mi aveva abituato quando ancora era calciatore. Quando invece ritornò per la partita d’addio di Ciro Ferrara non corsi a vederlo. Sarei scoppiato di emozione e poi mi deludeva che dovesse ritornare per una semplice ed unica apparizione. Diego mio avrebbe meritato di ritornare in altre forme, in altre vesti. In fondo chi ha vissuto quell’epoca, a qualsiasi età, in qualsiasi modo, convive con un unico grande assillo nella mente: «Quando torna». Ma deve tornare in pianta stabile. Al Re va restituito il Suo trono. Io ancora ci credo, e ci spero. Quanto ti ho amato Diego e quanto ancora ti amo. Legami che nessuno può capire ma che tra noi napoletani e napolisti possiamo confessarci senza scuorni o vergogne. Perché Diego è «nostro» e «mio» allo stesso tempo.
Valentino Di Giacomo
Quel 5 luglio del 1984… Buonasera napolitani
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