METTIAMOLA così: se oggi Napoli fosse quotata in Borsa, qualsiasi accorto imprenditore, anche fuori da ogni considerazione politica, ci punterebbe sopra. E tanto per continuare nella metafora, la giunta che va profilandosi, per l’intelligente mix di rodate competenze e di innovazione giovanile, nel grafico in salita non vale un semplice zero virgola qualche decimo, ma almeno tre o quattro punti di percentuale in più. Per aggiungervi una nota personale, chi come me aveva iniziato da anni un progressivo sganciamento dalla città, investendo altrove e diversificando, oggi rimette in discussione i suoi piani e torna a scommettere risorse ed energie nello sviluppo culturale e turistico della città.
Tutto bene, dunque? Speriamo, ma sorge spontanea una riflessione che deriva da lontane esperienze. Va ovviamente bene la società civile cooptata nelle istituzioni a rappresentare la città reale, ma quello che gli imprenditori, il mondo culturale e i cittadini si attendono è soprattutto il contrario: la società civile che smetta di essere “rappresentata” nel governo della città e inizi invece un processo di autorappresentazione, di assunzione di peso politico diretto, di reale potere decisionale. Vanno guardate con qualche sospetto le frasi un po’ consunte sull’ascolto delle istanze del cittadino e sull’amministrazione attenta ai bisogni della gente. È roba vecchia.
In questa concezione, alla fine del ciclo, resta sempre il principe più o meno illuminato che ascolta, e il vassallo più o meno colto che dice la sua. Così accadde nel primo rinascimento napoletano. In realtà Bassolino non generò granché in partecipazione, ma fu invece il prodotto delle iniziative della società civile. Società civile che già molto tempo prima della sua elezione aveva aperto le porte ai monumenti, pedonalizzato piazze, valorizzato culturalmente e artisticamente la città. Bassolino ci mise sopra il cappello e la politica iniziò un itinerario per svuotare e non per valorizzare quelle istanze.
Oggi de Magistris inizia un itinerario diverso perché non è l’ espressione di un preesistente vento nuovo, ma ne è in qualche modo l’ artefice e al tempo stesso il custode. A questo punto ascoltare i cittadini non basta. È nella storia che una classe politica, per quanto aperta e progressista, nel giro di mesi o di anni, tenda ad autolegittimarsie a riscoprire il gusto del palazzo. L’ antidoto è dunque nei contrappesi: in quale modo il napoletano entra nella scena della storia della città come cives dotato di un effettivo potere e non come elettore che ogni tanto vota o alza la voce.
Vien da chiedere al sindaco se sono previsti e quali sono i meccanismi di “democrazia diretta” che verranno istituzionalizzati per rendere più concretae armonica la “democrazia delegata”. Ancora: se verrà finalmente varato quel progetto di “bilancio partecipato” che prevede alcune, seppur esigue, risorse finanziarie del Comune da far gestire direttamente alle assemblee di quartiere in una progettualità “dal basso”. Il problema della “monnezza” e le tante altre urgenze della città non sono altra cosa dallo scenario di fondo in cui mettere le mani: il risveglio della società civile non può convivere per molto tempo con il resto della città fatto di ceti sociali ridotti a brandelli, privi d’ identità. Ridare ad essi connotazione significa rimetterli in campo. Significa innescare una moltiplicazione di microprogettualità in tutti i quartieri che renda i cittadini creativi difensori del proprio ambiente e costruttori di nuove occasioni di lavoro. Il centro storico può essere il luogo privilegiato di una immediata sperimentazione. Ci si dica, dunque, come spolverare antichi progetti e speranze, ci si indichi un luogo dove discutere e decidere, ci si consegni la carta dove sancire diritti e doveri reciproci. Tra giovani, imprenditori, operatori culturali, commercianti e semplici cittadini, sono tantissimi a richiederlo e ad aspettarlo.
Attilio Wanderlingh (tratto da la Repubblica)
Torno a scommettere su Napoli, ma l’apertura alla società civile è roba vecchia
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