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L’ultima partita di Diego con il Napoli

24 marzo 1991, Sampdoria-Napoli 4-1. Quell’ultima domenica a Genova si consuma insomma una vendetta ingiusta per Italia-Argentina

L’ultima partita di Diego con il Napoli

Finisce in silenzio. Sette anni prima, nel luglio dell’84, Diego era entrato nel cuore di Napoli in un tripudio folle di bandiere. Al San Paolo per palleggiare nell’intervallo di una partita tra Napoli Allievi e una selezione giovanile campana. Tremila lire la tribuna, duemila i distinti, mille la curva. Il 24 marzo 1991 il Nostro Eterno Amore scende in campo per l’ultima volta con la maglia del Napoli. A Genova con la Sampdoria. Si perde 4 a 1 e l’unica nostra rete la segna lui su rigore. L’ultima volta. In silenzio appunto. Senza tifosi, senza bandiere.

Nei giorni scorsi abbiamo giustamente celebrato l’ultima gara al San Paolo, quella col Bari in cui Diego offrì a Zola la palla dell’1 a 0. Ancora la squalifica per doping non era ufficiale. Sui giornali però campeggiavano i report di un’inchiesta che individuava persino i fornitori della cocaina. La mazzata del giudice sportivo si intuisce, ma ancora non c’è. Sette giorni dopo, quando il Napoli affronta i blucerchiati, il deferimento è avvenuto, la sentenza è ormai scontata. In pratica a Marassi gioca un Re che ha già perso lo scettro.

Avevo rimosso ogni cosa. Credo sia così per tutti. È logico. Quell’ultima partita è come se non ci fosse mai stata. La fine non esiste. Il Nostro Eterno Amore, appunto, è eterno. A prescindere dalle statistiche, dagli almanacchi. Non ce lo toglierà mai più nessuno. Sarà per sempre “la principale fonte della nostra gioia”, come dice de Giovanni. Quindi è vero che non ha senso soffermarsi sul necrologio implacabile, sul dettaglio dell’addio. La Storia, appunto, non finisce. Eppure quell’ultima gara suggerisce alcuni pensieri. Intanto l’idea di una sorte – e di una Caf, di un Matarrese – ingenerosi. Attenzione: delle abitudini autodistruttive di Diego sapevano tutti. Nel Napoli (ricordate la “pompetta” di Ferlaino?) ma credo anche ai piani alti del Palazzo. Si interviene solo quando la cronaca nera svela il triste retropalco della vita privata. Quando insomma la giustizia sportiva proprio non può più fare finta di niente.

Ma è anche vero che quella punizione spietata (un anno e mezzo lontano dai campi) fu inflitta, possiamo esserne certi, con spirito vendicativo. Il calciatore Diego Armando Maradona aveva osato eliminare l’Italia in semifinale, ai Mondiali. Proprio a Napoli, per giunta. E soprattutto, quell’argentino incivile si era permesso pure di incitare i tifosi del San Paolo a schierarsi con la Seleccion. Detto per inciso il rancore di Matarrese era un alibi inverecondo. Personalmente, Italia-Argentina la vidi in curva B, anello superiore. E Palummella impose un tifo incessante per gli azzurri per tutta la partita. Maradona prese un sacco di fischi. La Federcalcio doveva scaricare su un capro espiatorio (Diego, appunto) un’eliminazione costosissima da ogni punto di vista.

Quell’ultima domenica a Genova si consuma insomma una vendetta ingiusta. Diego la subisce con un sorriso malinconico. Con mestizia, anche. E qui però viene il secondo pensiero. Quella mestizia riflette anche un altro destino ineluttabile. Il Nostro Eterno Amore avrebbe voluto lasciarci almeno due anni prima. Dopo la vittoria di Stoccarda. Sognava di invecchiare, calcisticamente, nella tranquilla Marsiglia. Ferlaino non glielo concesse. Tornò dopo settimane di autoesilio estivo, Diego. Si rimise il Napoli in spalla e vinse il secondo scudetto. Va bene, quel tricolore è parte della Storia che non svanirà mai. Però, vi confesso, ripensando a quello sguardo mesto di Genova, mi viene in mente ancora una volta un’idea folle: ma siamo sicuri che non sarebbe stato più giusto lasciare Diego ai suoi desideri, nell’89? Certo, senza di lui, addio tricolore. Però, cosa è successo? Ci siamo appropriati di altri due anni della vita di un uomo irripetibile. Ce li siamo spolpati e goduti. Ma lui? Siamo sicuri che la traiettoria della sua vita non sarebbe stata diversa se si fosse allontanato prima da Napoli? Se fosse sfuggito prima a una morsa che un po’, si sa, lo soffocava? E ne incoraggiava i vizi? Ferlaino rispose con certezza: no, non è giusto, questo ha un contratto e resta qui. Ma devo dire, anche per questo, negli anni a venire, mi sono sempre figurato Ferlaino con l’immagine di un orco insaziabile. E a volte ho pensato che tutte le sofferenze successive – i 14 punti del ’98, l’altra retrocessione, la maglia a strisce come quella del Pescara, e infine il fallimento – tutte quelle sventure, ho pensato talvolta, sono state la punizione per la nostra ingordigia.
Ma insomma, alla fine questa è proprio la malinconia che viene per quel giorno lì, il 24 marzo del ’91. Silenzioso e invisibile, anche perché sovrastato dal fragore di sette anni di gioia.
Errico Novi

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