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Da bimbo era lo sport, oggi sono i miei padri

Mi piace l’Italia perché mio padre è italiano. Non festeggio proclamazioni di Re e firme di trattati. Le appartenenze si stabiliscono su percorsi d’amore. Da bambino l’Italia era una bandiera che svettava nel vento dopo una gara, l’epilogo dopo le imprese di Alberto Tomba che mi faceva impazzire. Pantani al Tourmalet, Baggio nel suo gol alla Nigeria. Yuri Chechi a Sydney mentre volteggiava sugli anelli. Le urla di Galeazzi sul trionfo degli Abbagnale. Panatta e la Ferrari. Mi piace l’Italia perché da bambino potei restare sveglio tutta la notte a guardare Patrizio Oliva battere Gonzalez tra mio padre e mio nonno.
Qualcuno potrà obiettare che, come tanti altri italiani, sono affetto da quello strano fenomeno che può definirsi “nazionalismo sportivo”. Un po’ è così. Eppure, a ben guardare, c’è nel solco stretto di questo sentimento tanto altro. C’è l’emulazione amorosa da un padre, il tempo trascorso sui divani della vita davanti alle tv che con il tempo diminuivano in spessore e aumentavano in definizione. I brividi e a volte le lacrime di un inno sono suscitati da quella traslazione di amore da un padre a un figlio o per appartenenza ad una comunità che si identifica sotto medesimi valori? Crescendo me lo sono chiesto tante volte.
La risposta è che sono due concetti che sembrano molto distanti e invece sono più vicini di quanto si possa pensare. Col tempo mi sono inoltre risposto che appartengo ad una particolare schiera di italiani: sono un italiano napoletano. Sono stato bambino di calci ad un pallone e mentre a scuola padroneggiavo la lingua nazionale, tra i vicoli capivo che lì non serviva. La sveltezza dei movimenti esige una sveltezza di linguaggio di cui il napoletano abbonda. Per l’esiguità di spazi nell’appartamento di bambino ritenevo che quella lingua potesse destreggiarsi meglio anche in quel luogo e invece ne ricevevo in cambio reprimende e schiaffi.
Più tardi ho compreso che anche il napoletano, essendo molto più una lingua che un dialetto, ha suoi registri e virtuosismi che tracciano culture differenti. Più grande ho scoperto che dovevo rispetto non solo al nome che era mio e basta, ma anche ad un cognome e a chi l’aveva onorato. Per questo, quando posso, firmo il nome in minuscolo e il cognome in maiuscolo: nel secondo c’è molto più sangue e più sapore. Racconto queste storie perché scopro che le appartenenze sono come matriosche che si riempiono a vicenda: si parte dall’appartenere ad un padre fino ad arrivare a più remote discendenze. Si parte da una strada, un quartiere, a una città per arrivare ad un Paese intero. Nelle estensioni si perde gradualmente un po’ di fervore ma qualcosa pur resta.
Festeggiamo oggi l’Italia. L’Italia degli inciuci di letto di Cavour, Berlusconi, Vittorio Emauele II. L’Italia degli inciuci in Parlamento. L’Italia di santi, poeti, navigatori o l’Italia di Totò di santi, poeti, sottosegretari. Festeggiamo ma un po’ ci lamentiamo di questa Italia ritenendola meno degna del passato. Accusiamo l’Italia e chi la rappresenta. Eppure, a prescindere da tutto, questo concetto di italianità non è soltanto metaforico. A guardarsi indietro scopriamo che questa Italia è figlia di un padre e poi di un altro. È nipote di un nonno che a diciassette anni partì per la Libia, di suo padre che finì in Russia. Oggi, volendo, possiamo festeggiare che un padre non insegna più il modo in cui si impugna un fucile Dietro di noi non c’è la storia, ma tante piccole grandi storie che non possono non appartenerci. Se non vogliamo festeggiare un inno, una data, una bandiera ricordiamoci almeno di festeggiare il sangue che ci scorre nelle vene. Non è tricolore e dobbiamo sperare che non venga sparso ancora. In fondo, per essere un po’ retorici, l’Italia è terra di pace, di famiglia e sole. E allora tanti auguri Italia.
Valentino Di Giacomo

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