Se fosse stato un attore avrebbe vinto il premio Oscar ad ogni film, se fosse stato un politico avrebbe vinto il premio Nobel, se fosse stato un calciatore avrebbe vinto più di un pallone d’oro. Ma è soltanto un allenatore e si chiama Josè, cognome Mourinho. Cinico, ironico, colto, spigliato, vincente, teatrale: quanti aggettivi potremmo usare per definirlo? Lo special one che si consegna ai posteri in una splendida intervista su Sky è un reperto da cineteca. Chi già serbava un certo ascendente nei suoi confronti, ne è stato totalmente e magneticamente conquistato quando poi è arrivato in Italia. Nella lunga intervista sulla Tv satellitare può portare persino all’adorazione assoluta. L’intervistatore improvvisato è Christian “ciuffo imbalsamato” Panucci. Nonostante fosse poco pungolato dalle domande dell’ex calciatore, Mourinho racconta la sua carriera dagli esordi fino a Madrid: comincia da assistente di suo padre allenatore. Poi secondo di Robson al Setubal e al Porto. Fino al Barcellona sempre con Robson e poi con Van Gaal. Intraprende finalmente il suo percorso di allenatore al Benfica, all’Uniao Leira per tornare al Porto dove vince prima la Coppa Uefa e poi la Champions League. Seguono Chelsea, Inter e Real Madrid.
Un unico filo conduttore attraversa tutte le sue esperienze: tanti successi e uno straordinario rapporto con ogni calciatore. Hanno fatto epoca le sue lacrime in quell’abbraccio con Materazzi nel garage del Bernabeu prima di salire sull’auto di Florentino Perez. Nella storia quelle dichiarazioni nelle conferenze di presentazione «Io mi sento uno special one» al Chelsea e «Io non sono pirla» all’Inter. I colpi teatrali come quel gesto a far la mossa delle manette o i suoi sproloqui nelle conferenze prima delle partite: come il leit motiv del «Zero tituli». Si ama o si odia, lo si stima o lo si denigra: la mezza misura non fa parte del suo universo. Chi vuole criticarlo asserisce che ha sempre allenato squadre di campionissimi. Vero solo in parte.
A sentirlo raccontare la sua carriera si impara, si apprende, riesce sempre a farti sintonizzare empaticamente con le sue emozioni. Josè Mourinho sale in cattedra e spiega come si allena, come si vince, come vive un professionista che ama maledettamente il suo lavoro. Spicca più della preparazione professionale, la sua attitudine per le relazioni interpersonali, per la comunicazione. «Non bisogna solo saper osservare il calcio, bisogna anche saperlo comunicare per farti comprendere dai tuoi calciatori» – dice più o meno così Josè, da restare impietriti. Di lui, con quella caterva di comportamenti forzati che mirano allo spiazzamento dei suoi interlocutori, emerge più di tutto una semplicità unica nell’approcciarsi alle cose. Come solo i grandissimi sanno fare produce dal suo animo ricco di contraddizioni universali una personalità netta e singolare. Se fosse filosofo (e forse un po’ lo è) si parlerebbe di trascendenze e immanenze. Josè Mourinho avvolge ogni categoria dell’animo umano. Cialtrone e signore, simpatico e antipatico, realista e sognatore. Sempre lui, con quella sua spiccata consapevolezza compiaciuta di chi nella vita ne ha viste tante e tante superando ogni muro, valico, barriera. Showman, avvocato, medico, giornalista: Josè Mourinho riuscirebbe in ogni campo. Forse ci si nasce, forse si diventa. Di sicuro è inimitabile. Chi ci ha provato a ricalcare le sue gesta ha raccolto soltanto brutte figure. Basta osservare la rivoluzione epocale che ha portato nella comunicazione e nel calcio italiano. Zenga che arrivato a Palermo dichiara di puntare allo scudetto, o Mihajilovic che alza il tiro degli insulti di conferenza in conferenza stampa.
Tantissimi provano a stargli dietro, nessuno a raggiungerlo. Forse anche Mazzarri ha provato qualche volta ad emularlo fermandosi (per fortuna) un secondo prima che la realtà si trasformasse in farsa, in sceneggiata burlesca, in commediuccia banale. Dopo Josè solo brutte copie, tutte mal riuscite. Spengo la Tv pensando: «Oggi ho imparato qualcosa». Lezione di calcio, forse un po’ esagerando si potrebbe anche dire lezione di vita. Bravo Panucci, poco da commentare. Eppure se ci penso mi torna alla mente Gianni Brera. Chissà quel vecchio tutto barba e pipa che cosa gli avrebbe chiesto. E chissà che soprannome gli avrebbe affibbiato. Uno che scriveva: «La pipa esige calma, interiore livello filosofico, sublime pacatezza dell’anima. Le sue delizie sono infinite e non tutti possono accedervi senza adeguate risorse religiose. Bisogna conquistare anche quel fumo ormai sapiente da secoli». Nella mente e nell’animo umano per fortuna ci sono circostanze immaginarie che il tempo non può afferrare. Proprio come il fumo. Ciao Gianni, arrivederci Josè..
Valentino Di Giacomo
Dopo José tutte brutte copie e anche mal riuscite
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