Popolo e borghesia fingono di urtarsi eppure procedono all’unisono. Si sono vicendevolmente necessari. Si muovono per ipocrisie, per finte diatribe.
Quei figuri di tanti anni fa
Se vi ricapita, spendete qualche minuto per rivedere Quei figuri di tanti anni fa. È un preziosissimo bignami di qualunque micro o macrocosmo napoletano, un vademecum quasi biblico compendiato in una manciata di minuti esilaranti. L’originale è del ’29 e si intitolava Quei figuri di trent’anni fa ma poi Eduardo, nella purezza del suo genio, impiegò nulla a capire che quelle strane presenze non appartenevano affatto alla fine del secolo precedente ma erano piuttosto gli eterni fantasmi della sua città rimasta immutata nel corso delle generazioni.
Il cinismo eduardiano
Il Circolo della Caccia è un Cuciniello di cinismo, come ogni opera eduardiana. È una comunità che vive truffando l’esistenza, in sgarbo ad ogni tentativo raziocinante. È un luogo di metafore grottesche, tutte zoppicanti. L’opera è d’uopo la regga un ex galeotto, Gennaro Fierro – il tipico paladino del popolo, da noi spesso detto (con qualche spenta ammirazione) Masaniello, sebbene pro forma il fitto del locale sia costretta ad intestarselo una povera vedova vessata.
Il pollo da spennare è il classico borghese partenopeo, Peppino Fattibene – un avvocato elevato da un affettatissimo Fierro a signor “capintesta della Magistratura”. Per non disonorare il cliché, che evidentemente dura all’ombra del Vesuvio sin dal secondo ottocento, Fattibene è uno spilorcio senza appello. Persino con le donnine facili che Fierro gli fa ronzare attorno. I borghesi, a Napoli, non hanno mai tirato fuori un quattrino. Nunc et semper.
Popolo e borghesia fingono di urtarsi
Popolo e borghesia fingono di urtarsi eppure procedono all’unisono durante tutto l’atto unico. Si sono vicendevolmente necessari. Si muovono per ipocrisie, per finte diatribe. Fierro mostra Sciù Sciù, la sua protetta clownesca, si illude di comandare un branco di straccioni; Fattibene non perde attimo per far presente il suo ridicolo distacco nei classici modi arzigogolati e smidollati dei dandy delle nostre parti – “Io, un’altra volta che vi vedo, è la seconda volta”. Fierro prova la trama giusta per colpire il pollastro che ha il portafogli ad organetto, ma ad ogni suo passo è travolto dalla sua incompetenza e dalla pigrizia del Fattibene. Sembra di leggere una cronaca su di un giornale locale in edicola domani.
Il sesto piano di vicolo Scassacocchi
In mezzo c’è chi prova a capire. Per inadeguatezza più che per volontà. C’è Luigi Poveretti, che a questi stilemi prova ad applicare la normale logica umana. Prova ad interpretare le parole per quelle che realmente sono, e casca in un abisso ad ogni passo. Nel Circolo della Caccia niente è ciò che sembra. Vige il gergo, che fa da prodromo alla famosa parlesia del No grazie, il caffè mi rende nervoso: codici su codici che criptano e decriptano frasi sino al punto che il concetto originale viene completamente disperso. Il capo populista, il professionista illuminato, la marchesa madre. Veniamo tutti “dal sesto piano del Vicolo Scassacocchi”. Questa è la frase cardine di questo strepitoso atto unico. Tutti esimi abitanti dello Scassacocchi. E a fare la fine del Poveretti ci si trasfigura, si diventa il palo, quello che, ad aspettare di chiarire i fatti, s’enfracetaje.
Sono pochi minuti ma valgono qualche secolo di cronaca politica e sociale a Napoli. Ed anche sportiva. Persino uno sprazzo calcistico eduardiano: “L’acqua non è tornata, ma abbiamo delle riserve”. L’acqua è Milik. Le riserve già sapete chi sono. Questo è ‘o gergo.