A L’Equipe: «Ho vissuto nel sud di Londra dove in molti scelgono la vita di strada, io non mi sono mai lasciato deviare. Il duro lavoro alla fine mi ha aiutato».
L’attaccante dell’Atalanta Ademola Lookman ha raccontato in un’intervista a L’Equipe la vittoria dell’Europa League avvenuta a maggio e la sua infanzia vissuta a Londra.
Lookman: «Dopo la finale di Europa League, Gasperini mi disse: “Hai scritto il tuo nome nella storia del calcio”»
«Il modo in cui abbiamo vinto la finale di Europa League e tutto il nostro percorso ha portato a momenti incredibili. Questa sensazione di vincere e avere la medaglia d’oro intorno al collo, è incomparabile. Si gioca per le vittorie, questo è ciò che conta davvero. Scrivere la storia, qui, in una città così piccola come Bergamo, con una squadra che continua a crescere, vincere l’Europa League, che non era mai successo in questo club, è straordinario. Il modo in cui ho segnato il primo gol ha mostrato a tutti la mia fame e ha poi indirizzato il match contro il Leverkusen. Dopo quella rete siamo diventati tutti aggressivi in campo. Questo ci ha permesso di andare avanti, con questa coesione.
Sono sempre stato fiducioso delle mie capacità. Non sapevo che avrei segnato tre gol quella sera, ma se si presenta l’occasione, la colgo al volo. Mi è stato chiesto se lo avessi mai sognato, ho risposto: “Certo”, perché pensavo di esserne capace. Se ci credi, puoi farlo, è così che la vedo io. Dopo qualche giorno, Gasperini mi disse: “La tua prestazione è stata straordinaria. Hai scritto il tuo nome nella storia del calcio”. Mi ha emozionato. Ho lavorato duramente per raggiungere questo obiettivo, e sto ancora lavorando per il prossimo».
Lookman è cresciuto nei quartieri di Peckham e Camberwell a Londra:
«Erano posti molto rumorosi, quando si giocava a calcio tutti cercavano di emergere. C’erano molte comunità e culture diverse che si mescolavano. Il sud di Londra è uno dei luoghi dove ci sono più persone di origine nigeriana. Era la mia “Piccola Lagos”. Ho solo bei ricordi di quella vita così semplice, perché è quello che mi ha reso ciò che sono oggi. Mi ha rafforzato come persona, adesso sono meno fragile. Ci sono tanti ragazzi che giocano e che hanno talento, ma quello da solo non basta. Lì ho imparato a lavorare sodo, a non riposare sugli allori. Devi essere in grado di badare a te stesso, per resistere alle pressioni. Alcuni scelgono la vita di strada per diversi motivi, ma io non ho mai voluto. La mia vita era casa, scuola, calcio. Nient’altro. Ed è stato fantastico, non mi sono lasciato deviare».
L’attaccante viaggiava spesso verso il suo Paese natale, la Nigeria, quando era bambino:
«Non tutti gli anni, ma una volta ogni 18 mesi circa. Siamo stati a Lagos. Mio padre lavorava molto, andava via la mattina presto e tornava tardi a casa. A volte lo accompagnavo, a volte no. È un posto fantastico, nel senso che la Nigeria respira e vive il calcio. Giocavo in un parco vicino casa di mia nonna, incontravo lì i miei cugini e ci mettevamo a giocare. I miei mi avevano parlato molto del Paese prima che lo vedessi per la prima volta. Ma esserci è diverso».
Ha poi giocato con le nazionali giovanili inglesi:
«Ho anche vinto la Coppa del Mondo Under 20 nel 2017. Ma mio padre spingeva perché giocassi con la Nigeria e alla fine mi ha convinto».
Quando è arrivato in Premier League, al Manchester City nel 2008:
«Mi ispiravo a Cristiano Ronaldo e Lionel Messi. Mi piaceva giocare istintivamente, senza pensare troppo ai movimenti, perché se penso troppo poi mi blocco e non gioco in modo naturale. Qualunque cosa mi venga in mente, la faccio come viene. Quando ho saputo che ero stato nominato per il Pallone d’Oro ero con la nazionale. Essere l’unico giocatore africano nominato è una sensazione speciale. Se penso che ho iniziato dal basso, esserci ora grazie al mio duro lavoro e alla mia perseveranza, è una benedizione e un grande onore».