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Berrettini: «Ho conosciuto il buio e il buio sembra non avere fine. Ho pensato anche di mollare»

Al CorSera: «Mi sembrava ingiusta tanta cattiveria, mi ha ferito non trovare una elementare solidarietà. Ho conosciuto il malessere, l’obiettivo è tenerlo lontano»

Berrettini: «Ho conosciuto il buio e il buio sembra non avere fine. Ho pensato anche di mollare»
Londra (Inghilterra) 06/07/2023 - Wimbledon / foto Imago/Image Sport nella foto: Matteo Berrettini ONLY ITALY

Walter Veltroni intervista Matteo Berrettini per il Corriere della Sera. Ci sono i ricordi della stanza che aveva da bambino («piena di poster di Pulp Fiction, Mad Max, Fight Club, della trilogia di Batman girata da Nolan»), al rapporto con il fratello e con i Lego:

«nel mondo di quei mattoncini mi isolavo, mi sembrava di stare in una bolla tutta mia. Mi piaceva quel disordine, che solo la pazienza e l’intelligenza di qualsiasi bambino in qualsiasi parte del mondo poteva trasformare in una forma compiuta. Il frammento diventava l’intero, grazie al cervello».

La prima racchetta da tennis a tre anni, poi l’abbandono per le arti marziali e il ritorno al tennis, a otto anni, per non separarsene mai più.

Il tennis è una filosofia, un modo di vedere la vita. Berrettini:

«Io sul campo da tennis non ho segreti, conosco e riconosco ogni singola emozione, ogni gesto, ogni fragilità e ogni potenza. Il mio corpo e il mio cervello non hanno più segreti. Nel tennis, nella solitudine di quello sport che pure è sotto gli occhi di tutti, mi sento come un entomologo di me stesso. Ogni gesto è pensato, vissuto e sofferto. Perché da ogni gesto dipende l’esito di ciò che fai. E tanto più è alto lo stress quanto più riesci a comprenderti. Il tennis è uno specchio impietoso, ti guarda dentro. E ho capito una cosa fondamentale: per eccellere, in questo sport, devi in primo luogo riconoscerti».

Berrettini spiega cosa è la sconfitta per lui.

«Il tennis ti insegna a perdere. Anche i migliori, anche nelle migliori stagioni, devono bere il calice della sconfitta. Io odio perdere, ma ho sempre usato la sconfitta per migliorarmi. Per me è un motore più grande della vittoria. Non sentirmi più in quel modo, non provare quella rabbia o quella frustrazione, talvolta umiliazione, mi spinge a cercare il modo per rimuovere quell’errore, quel difetto che mi ha fatto perdere una partita o un torneo».

Il carattere e la testa si possono educare. Berrettini si descrive istintivo e selvaggio, quando era più giovane, mentre adesso «seziono ogni pulsione, cerco di correggere le reazioni e di dominarle. L’esperienza mi ha insegnato a capire la natura dei momenti che vivo e a cercare l’atteggiamento mentale più giusto».

Mai mollare, anche quando di sta perdendo.

«È in primo luogo una forma di rispetto verso sé stessi. Penso sempre: “Ho lavorato troppo, ho faticato giornate intere e non ho il diritto di regalare un punto o di arrendermi. Se vuole vincere, il mio avversario se la deve sudare, fino all’ultimo”. La rinuncia a combattere, l’inerzia negativa è l’unica sconfitta che non sopporto, non riesco a perdonarmi. Io non voglio mollare mai».

Negli ultimi tempi Berrettini ha dovuto combattere con molti infortuni e anche con brutti momenti a livello morale. Dice che sta cercando di capire cosa è successo al suo fisico. Quello che è certo è che gli infortuni fisici lo hanno fatto precipitare in un periodo di buio psicologico.

«Non poter competere in appuntamenti importanti mi ha fatto conoscere il buio. E il buio sembra non avere fine, sembra ti inghiotta perché invece di stare fermo e rifiatare, ti scavi da solo un abisso. Sono stati momenti brutti, che non mi sono piaciuti. Ma sono stati fondamentali per farmi ritrovare le ragioni della gioia di fare quello che ho iniziato da bambino e che ha occupato tutta la mia vita. Ho ripensato alle origini per ritrovarmi. Il buio mi ha dato lo spazio per farlo».

Ti sei sentito solo in quei giorni? Berrettini risponde che non si è mai sentito solo, visto che ha tante persone che gli vogliono bene, attorno, ma spaesato sì.

«In quei giorni mi sono sentito spaesato, a disagio. Mi sembrava ingiusto che, per qualcosa che atteneva al mio fisico, dovessi ingurgitare tanta cattiveria. Che tutti quelli che avevano tifato sparissero o si tramutassero improvvisamente in giudici o odiatori. In fondo sono stato bloccato dal mio corpo dolente e ho tentato di reagire con tutte le mie forze. Ho pagato io il prezzo più alto. Ecco, questa elementare solidarietà mi è mancata. Mi ha ferito non trovare questa sensibilità».

Durante questo tempo cupo hai mai avuto voglia di dire basta?

«Tante volte, credimi. Nel 2020 ho avuto un’annata complicata e ricordo di aver fatto il pensiero, che mi aiutava a dormire, di prendere il passaporto, non dire nulla ad anima viva e fuggire dove nessuno avrebbe potuto trovarmi. Mi è capitato di pensarci, nei giorni bui. Pensavo ma perché devo subire tutta questa pressione, il senso di colpa per il mio corpo ferito… La vita è una, non ha repliche. Ma poi il tempo, il confronto con gli altri mi hanno fatto capire che io sono felice solo se scendo in campo e respiro quell’atmosfera. E sono infelice se non lo faccio. é una magnifica condanna, che mi sono scelto. E che ancora oggi, di nuovo oggi, mi regala gioia immensa».

Il tic della scelta delle palle fornite dai raccattapalle al momento del servizio a cosa rimanda? Berrettini:

«È una routine, ma quando io servo mi faccio dare tre palle e scelgo le due che mi sembrano più nuove. Per esempio, se si gioca uno scambio molto lungo la palla si allarga e va meno veloce nell’aria. Una pallina più nuova è più piccola e quando si serve fa più l’effetto sasso, la si preferisce perché va più spedita. E poi quella prima del servizio, pensa anche ai gesti di Nadal, è una routine, fatta di gesti ripetuti, che aiuta ad essere concentrati, che ti fa stare lì. Ogni neurone del mio cervello deve essere impegnato in quel momento, in quel luogo. La routine aiuta a farlo».

Cosa è la paura per un tennista? Berrettini:

«Il motore fondamentale. Se non ho paura, c’è qualcosa che non va. Quando mi sono svegliato sereno, prima di una partita, l’ho sempre giocata male. La paura controllata è fondamentale. All’inizio è stata la paura di non farcela, di non convincere i miei genitori a farmi continuare, di non essere all’altezza delle attese. Quella paura è un motore».

Hai un amico nel circuito?

«Sì, Lorenzo Sonego, è l’unico con cui abbia un rapporto che supera il campo. Siamo coetanei, abbiamo fatto lo stesso percorso e ci stimiamo. Quando mi ha battuto seccamente a Stoccarda, il giorno in cui tornavo a giocare, alla fine non ha esultato. Io ero completamente fuori di me e lui mi ha detto “Mi dispiace”. Significava “Mi dispiace vederti così”. Quando poi ho vinto io, a Wimbledon, lui a fine partita mi ha abbracciato, mi voleva dire che con me desiderava sempre giocare così, da pari a pari. Quel tipo di sensibilità non è diffusa. Nel tennis. Ma non solo».

Quali sono ora i tuoi obiettivi? Berrettini:

«Al livello sportivo nel mio cuore c’è Wimbledon. E anche gli internazionali di Roma. Ma oggi che, per la prima volta, ho conosciuto il malessere, l’obiettivo è quello di non frequentarlo più, di tenerlo lontano. E di vivere il tennis per quello che è: gioia e sfida per migliorare sé stessi».

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