A Sportweek: «Della mia carriera da allenatore non butto via niente. Ho sempre cercato di dare il massimo e rispettare le regole».
Su Sportweek, settimanale della Gazzetta dello Sport, un’intervista a Roberto Donadoni. Nato a Cisano Bergamasco, ultimo di quattro fratelli, Donadoni racconta la sua infanzia nelle cascine di famiglia.
«Papà lavorava in campagna, ma subito dopo il militare è stato assunto da una ditta metalmeccanica. Poi si è messo in proprio e ha acquistato due camion. È scomparso dieci anni fa, mi ha insegnato i valori, a fare le cose con rigore e serietà. Solo una volta si è arrabbiato di brutto. Quando è venuto a sapere che avevo dato uno schiaffo sulla spalla a una compagna di scuola, perché non voleva darmi la figurina che mi mancava per finire la collezione Panini. Con molta calma mi ha detto: “Senti, un’altra sola lamentela dalla scuola e ti inchiodo le orecchie al banco. Capito?”. Non ci sono più state lamentele».
Suo padre andava a vedere le sue partite, ma, racconta Donadoni, non parlava mai.
«Sì. E stava in silenzio. Non ha mai fatto commenti, né prima, né dopo. Nemmeno quando sono andato all’Atalanta, in Serie B e poi in A. Non diceva una parola, ma era contento e orgoglioso».
Ricorda i primi anni alla Dea («Bellissimi. Andavamo agli allenamenti in cinque su una Cinquecento, borsoni compresi. C’era molta allegria, eravamo eccitati e felici») e il passaggio al Milan.
«Sono cresciuto con il mito di Rivera, il mio idolo. Sognavo il Milan, mi voleva la Juve, mi ha preso Berlusconi. È stato lui a insistere e gliene sono ancora grato. Allora l’Atalanta era molto legata agli Agnelli. Dicevano che era un specie di succursale della Juve. C’erano stati molti affari e molti scambi. La Juve di quegli anni era fortissima, la
squadra più ambita. Ma io volevo il Milan e diciamo che mi è andata bene».
Donadoni parla di come ha vissuto l’esperienza da commissario tecnico della Nazionale.
«Ho buoni ricordi. Ho allenato la Nazionale, la squadra del mio Paese, il massimo per chi fa il nostro lavoro. Non penso mai in negativo e non vivo di rimpianti, il calcio è fatto di queste cose e io le ho sempre accettate. Sono diventato commissario tecnico in un momento particolare, a livello federale la gestione era molto complicata, si arrivava da un Mondiale vinto nel 2006. Impossibile fare meglio. All’Europeo 2008 abbiamo perso ai rigori con la Spagna. Poi abbiamo visto cosa ha fatto quella Spagna: due Europei e un Mondiale vinti…».
Donadoni fa anche il bilancio da allenatore di club.
«Mah, difficile. Sono in pista da qualche anno. Sono stato in diverse città, in diverse realtà, in mondi diversi. È stato bello e vario, anche i rapporti con le società e i presidenti. Io tengo tutto, non butto via niente. Ho sempre lavorato cercando di dare il massimo e rispettare le regole. Ovunque. In tutti i Paesi, in tutti i posti dove ho giocato e allenato. In Arabia, in Cina. Sono curioso, mi piacciono le nuove esperienze, voglio sempre crescere vedere posti nuovi e culture diverse. Credo nei rapporti con la gente, con i dirigenti, con i giocatori. All’inizio della mia carriera di tecnico forse ho sbagliato qualcosa. A Lecco, in Serie C, pretendevo dai giocatori cose che non potevano fare. Per me, calciatore, erano semplici. Per loro un po’ meno. Dagli errori s’impara. In questo momento, dopo l’esperienza con lo Shenzhen, sono fermo. Quest’anno faccio 60 anni, ma sono pronto a tornare. E intanto guardo gli altri e mi aggiorno. Il calcio, come la vita, non si ferma mai: se vogliamo stare al passo con gli altri dobbiamo aggiornarci. Se capiterà l’opportunità buona, sarò felice di coglierla».
Donadoni parla anche del Napoli, squadra che ha allenato. Gli chiedono se si aspettava una stagione così incredibile.
«Non così. Si è visto subito all’inizio come si stava attrezzando per affrontare la stagione ad alto livello. Ma sta producendo un calcio di straordinaria bellezza. Gioca, è straripante, incanta, vince. Tutto quello che raccoglie se lo merita».