“I rigori non sono una lotteria, vengono segnati il 76% delle volte. E il portiere resta fermo solo il 3% delle volte”
Sì, il povero attaccante che se sbaglia il rigore al Mondiale lo attaccano al muro. Ok. Ma del portiere? Vogliamo parlare del portiere? Che poi quelli in Qatar sono i Mondiali dei portieri-eroi, complici i tanti rigori parati. Se gli attaccanti hanno paura, scrive Daniel Verdù su El Paìs, che devono dire i portieri? Ne sottovalutiamo le ansie. La più grande di tutte è quella di restare vittima del “cucchiaio”.
“Nel pomeriggio del 29 giugno 2000, stavamo ammazzando il tempo in un bar del Raval di Barcellona con alcuni amici. Sul vecchio televisore a tubo, un certo Francesco Totti rideva delle statistiche che paralizzavano i suoi compagni. All’epoca aveva 23 anni, prese la palla che nessuno voleva ai rigori della semifinale degli Europei, si rivolse a un terrorizzato Paolo Maldini e disse: ‘Nun te preocupà, mo je faccio er cucchiaio'”.
“Totti aveva davanti a sé il miglior portiere del mondo, un ragazzo alto 1 metro e 97 che al solo guardarlo faceva rimpicciolire la porta e il cuore”. Ma Totti, oltre che il talento, aveva dalla sua la scienza, la statistica.
“I rigori non sono una lotteria, vengono segnati il 76% delle volte, secondo InStat”. I dati chiariscono anche che ci sono gli specialisti, è vero, ma la loro percentuale di realizzazione non è così tanto più alta dei non-specialisti: il 77%, contro il 75%.
Ma c’è una statistica in più, quella che riguarda appunto il “cucchiaio”, lo scavetto scentrale, il “Panenka”. I dati dicono che è l’opzione migliore. Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Journal of Economic Psychology ha analizzato 286 rigori presi nelle principali competizioni internazionali. Quasi il 30% è andato verso il centro della porta, ma solo il 3% dei portieri è rimasto fermo. Come mai? Il portiere si butta – anche – per paura di restare impalato come statua, e “di essere poi dipinto come un idiota”.
E’ la paura del rigore da parte del portiere descritta nel famoso libro del premio Nobel Peter Handke, che descriveva il “portiere come simbolo di quell’isolamento e di quella solitudine nei momenti che lasciano cicatrici. Un ragazzo spaventato che finisce a fare il meccanico e poi licenziato”.
Anche adesso in Qatar “la pressione è tutta su chi calcia. E solo lì, l’illusione della scienza può contribuire ad alleviare la preoccupazione causata dalla mancanza di talento, la sensazione di impostura che portiamo o l’angoscia di essere per un secondo qualcuno che dipinge qualcosa”.