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«L’Union Berlin è una comunità, l’esempio che una squadra di calcio si può gestire in un altro modo»

Lo speaker del club al Fatto: «I nostri tifosi proprietari distribuiscono cibo ai bisognosi, puliscono il fiume… hanno anche ristrutturato lo stadio»

«L’Union Berlin è una comunità, l’esempio che una squadra di calcio si può gestire in un altro modo»

L’Union Berlin è prima in classifica in Bundesliga dalla prima giornata del campionato. Un fenomeno di cui si parla in tutta Europa, per la sua eccezionalità. Il Fatto Quotidiano dedica un approfondimento alla squadra, intervistando Christian Arbeit, il direttore della comunicazione del club.

Per anni l’Union è stata la terza squadra di Berlino. Durante gli anni della Germania Est era considerato il club dei sindacati, guardato con sospetto dal regime e con risultati poco entusiasmanti. I tifosi lo chiamano Eiser Union (unione di ferro) che è anche il titolo dell’inno, scritto e interpretato da Nina Hagen. L’Union non ha un proprietario: appartiene ai tifosi e gioca in uno stadio dove il 70% del pubblico non ha posti a sedere.

Da quando siete in vetta alla Bundesliga è cambiata la pressione sulla squadra?

«Non ci facciamo attenzione. Come club siamo concentrati su noi stessi, su come gestire le partite, i tifosi, lo stadio. È divertente vedere come tutti attorno a noi siano eccitati. Giocatori, team, tifosi stiamo spalla a spalla e ci teniamo ben ancorati a terra».

L’attenzione internazionale sulla squadra dice, rende il club ancora più orgoglioso della sua unicità e della sua storia.

«Stiamo mostrando che non tutti i club devono essere uguali. C’è un modo diverso di gestire una squadra e si può arrivare lo stesso in cima alla classifica».

L’Union Berlin appartiene per il 100% ai suoi tifosi.

«Sì, oltre 46mila soci. È una scelta. Non siamo gli unici, anche il Friburgo ha una struttura simile alla nostra. Ma tutte le altre squadre funzionano diversamente, hanno una società e un grande azionista che decide tutto. Qui non è così, questa è una comunità. E anche in un business difficile come il calcio professionistico una collettività può essere profittevole».

L’Union non è solo una squadra di calcio.

«Questa è la storia di un quartiere, Kopenick. Lo stadio è qui da 100 anni, in mezzo alle case, accanto al fiume. Non come gli altri club che costruiscono i loro stadi nella periferia in mezzo ai parcheggi».

Quando si è trattato di ristrutturare lo stadio, in assenza di soldi, ci hanno pensato i tifosi con il proprio lavoro.

«Certo, io ho preso le vacanze dal mio vecchio impiego. 2500 volontari, 150mila ore di lavoro messe a disposizione. Ogni mattina facevamo i gruppi: un carpentiere metteva assieme un paio di impiegati, un infermiere, un’insegnante. È stata una delle esperienze più importanti che abbia mai fatto».

Cos’è l’Union Berlin per il quartiere, per Kopenick?

«È quello che fa. Ogni martedì qui accanto allo stadio la squadra distribuisce pasti caldi e cibo in scatola. Questo fine settimana ci occupiamo della pulizia del fiume. Poi ci sono eventi grandi, come la famosa festa di Natale allo Stadio. L’ho già detto, siamo una comunità».

Fa un esempio di cosa intende quando parla di comunità.

«Non si può giocare in Bundesliga senza grandi sponsor. Noi li abbiamo e li coinvolgiamo in tutto. C’è una differenza nell’avere un’azienda che butta i suoi soldi nel contenitore club e uno sponsor che accetta la cultura della nostra squadra. Se uno dei nostri partner volesse far volare un piccolo dirigibile sopra lo stadio durante la partita, cosa che è successa altrove, è il mio compito spiegargli che facendolo la gente li odierebbe. Ci sono diversi modi di costruire un club. Giocatori, dipendenti, stampa, tifosi anche lo stadio ha diritto di dire no. Nessuno ha sempre ragione e il rispetto è alla base delle relazioni tra i vari gruppi che compongono la squadra».

Anche se l’Union non dovesse vincere la Bundesliga, resterebbe comunque la missione importante, l’idea di mostrare a tutti che un altro modo di gestire un club è possibile.

«Anche se questa possibilità svanisse, l’importante è questo momento. Poter dire a tutti, anche in Italia, che esiste un altro modo di immaginare e gestire le squadre di calcio, rimanendo comunque abbastanza competitivi per ambire alla vittoria del campionato».

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