Al CorSera: «I nostri film hanno fatto guadagnare 700 milioni di euro. Il nostro successo ci attirò un pregiudizio ideologico. Ora siamo oggetto di un culto esagerato»
Il Corriere della Sera intervista Enrico Vanzina, figlio di Stefano, Steno. Oggi ha 73 anni, da solo e in coppia con il fratello Carlo, scomparso nel 2018, è stato sceneggiatore, regista e produttore di oltre 120 film. Da piccolo aveva come vicino di casa Totò.
«Abitava a pochi passi da casa nostra, in via dei Monti Parioli— io però sono nato a piazza di Spagna — dove il nostro dirimpettaio era Mario Camerini. Nella vita era il principe De Curtis, che girava sulla Cadillac con le tendine. Papà è stato il regista di Totò per eccellenza. Si capivano, si piacevano».
Alberto Sordi, invece, era come uno zio. Vanzina lo definisce «il più grande amico di famiglia».
«L’ultimo ricordo che ho di lui è del giorno in cui morì. Ero in auto, stavo andando fuori Roma, tornai indietro. Davanti alla villa di Sordi era pieno di gente, di telecamere. Suonai. Mi aprì la sorella. “Vieni, vieni con me, Alberto ti voleva tanto bene, voglio farti un bel regalo”. Mi portò in una stanza. C’era lui disteso sul letto, cereo. Avrei voluto scappare, mi faceva impressione. Però mi tornò in mente di quando scherzava così: “Non ho paura della morte, io con quello lassù ci ho già parlato, ho prenotato una suite in Paradiso” e riuscii a sorridere. Al funerale di papà invece, nella chiesa di San Lorenzo in Lucina, vidi Alberto piangere a dirotto, nascosto dietro una colonna, straziante».
Con i loro film i fratelli Vanzina hanno garantito incassi elevatissimi.
«Ho calcolato che i nostri film, nel complesso, hanno fatto guadagnare sei o settecento milioni di euro, non a noi eh. Una volta Richard Fox della Warner, con cui nel 2002 abbiamo fatto La Mandrakata, mi riferì quello che gli aveva detto Steven Spielberg: “In Italia mai fare uscire un film insieme a quello dei Vanzina”. Avrei voluto correre a genuflettermi davanti a lui».
Sul fratello:
«Ero il più alto, il maggiore, l’unica volta nella vita che ho litigato allo stadio è stato per difendere lui. Il mio dolore più grande è di non averlo potuto tenere al riparo dalla malattia e dalla sofferenza, ero convinto che me ne sarei andato prima io. Continuare da solo è difficile, però non posso mollare. Come nel menu di un ristorante c’è la specialità della casa, nel cinema dei Vanzina c’è il racconto della vita attraverso i nostri occhi, ora solo i miei. E penso: questo come l’avrebbe fatto Carlo? Come l’avrebbe girato papà? Sono sempre e comunque qui con me».
Racconta di come i critici accoglievano i loro film.
«All’inizio ci trattarono molto bene, poi il nostro successo ci attirò un pregiudizio ideologico. Abbiamo raccontato gli anni Ottanta come nessuno, l’epoca di Craxi, della Thatcher, di Berlusconi con le sue tv, ci accusavano di essere i loro cantori, invece prendevamo in giro un certo mondo, la Milano da bere di Yuppies e la Roma cafona di Vacanze di Natale. Adesso c’è la fase del culto esagerato, terrificante… di buono c’è che spesso ti permette di non pagare al bar».