Il definitivo salto di qualità potrà esserci solo con l’arrivo di una certa categoria di calciatori. Il Napoli ha giocatori forti ma che non hanno mai respirato ad alta quota
Ci risiamo. Ancora una volta, orma da tempo, il day after della sconfitta offre all’ambiente napoletano uno spunto di riflessione che accompagna ogni dibattito attorno a questa squadra: il carattere c’è o non c’è? C’è! Hai visto come il Napoli ha vinto all’Olimpico con la Lazio? Non c’è! Ieri col Milan se la sono fatta sotto, ogni volta che devono dare un segnale forte non ci riescono!
Il tutto, ovviamente, a distanza di pochissimi giorni.
Se soffermiamo le nostre analisi sulla singola gara – o peggio sul risultato e stop – rischiamo di ingannare l’intelletto. E’ il trend che deve essere sezionato.
Il Napoli non è mai stato, nella sua storia, un club in grado di fornire al proprio allenatore un gruppo con la mentalità vincente.
Anche nell’epoca degli Anni d’Oro con il più forte di tutti, Diego Armando Maradona, si è vinto meno di quanto si sarebbe potuto. Eppure, la rosa a disposizione fu, per molti, la più forte di sempre.
Da questo punto di vista, Arrigo Sacchi ha ragione quando dice che il problema a queste latitudini è l’assenza dell’abitudine al trionfo. Non condivido l’aggiunta del problema culturale, da lui accennato, ma da un punto di vista strettamente calcistico sfido chiunque a dire il contrario.
Quell’abitudine al trionfo è proprio il carattere che manca al Napoli. Olivier Giroud, pagato appena 1 milione più uno di bonus, ha liquidato in pochi giorni Napoli e Inter. Al Napoli manca chi porta in dote l’abitudine al trionfo. Molti calciatori azzurri giocano insieme da anni, dunque l’esperienza l’hanno accumulata, si può osservare. Ma nessuno, in rosa, ha mai giocato una finale di Champions, una Supercoppa Europea, un Mondiale per Club. Nessuno ha mai respirato quella tensione del livello più alto, quell’ossigeno quasi rarefatto, per poter imparare a gestire determinati momenti.
Sì, sto dicendo che il carattere si compra al mercato.
Si tratta di scelte societarie, è ovvio. Il Napoli ha deciso negli anni di non pagare ingaggi elevati a calciatori in età avanzata, magari risparmiando sul cartellino. La leggenda che i più “anziani” si infortunano spesso è smentita proprio da questa squadra.
Tuanzebe, Anguissa, Lobotka, Lozano, Malcuit e così via. Per non parlare di Osimhen. Il calciatore è un mestiere che, per definizione, espone ad infortuni a qualsiasi fascia d’età. Il definitivo salto di qualità potrà esserci solo con l’arrivo di una certa categoria di calciatori.
Anche per questo, il riferimento che ha accompagnato la lunga vigilia di Napoli-Milan alle sfide degli Anni ’80 è stato imbarazzante. Da un punto di vista tecnico, è come paragonare i Queens ai rispettabilissimi cantanti di piano bar. L’unica cosa in comune con quel periodo è stato lo stadio pieno ed il calore del pubblico. Stop.
Preferisco poi sorvolare sulla prova dei singoli, anche qui bastano le parole di Sacchi (“L’unica soluzione del Napoli contro il Milan è stato Osimhen ma non può fare tutto da solo”). Ci sarebbero altre 24mila parole da dire su leadership, sul prendere la squadra per mano, sul fare la differenza da un punto di vista tecnico. Ma anche no, grazie. Evito. Così i tombini restano chiusi.
Meglio guardare avanti.
Il campionato non è certamente finito e gli azzurri, considerato il livellamento verso il basso della Serie A, possono chiaramente continuare a sperare di vincere il titolo, senza dimenticare l’obiettivo madre, ossia blindare l’accesso alla Champions League. Spalletti continui a vivere Napoli a volo d’uccello, senza impantanarsi. Prenda decisioni senza guardare in faccia a nessuno, senza ascoltare i mugugni di chi non gioca dall’inizio o di chi viene sostituito.