L’unico inverno di Napoli ci è parso sempre e solo quello dei Cupiello. Cunce’, fa freddo? Fa freddo. Chiudiamo le porte, serriamo le finestra, questa sciagura passerà. L’inverno di Napoli è bandito dalle cartoline, estraneo ai processi delle relazioni esterne della città. “Non è una stagione adatta a Napoli. La città non vi è preparata”, scriveva Domenico Rea in “Pensieri della notte”. “L’inverno è solo un contrattempo”, aggiungerà nel racconto “Il re e il lustrascarpe”. Siamo stati convinti da secoli e secoli che “nell’inverno conviene dormire nelle stanze che hanno l’aspetto a mezzo giorno” (Andrea De Jorio, La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano, 1832), che l’inverno porta pericoli essendo peraltro la stagione in cui i briganti fanno ritorno a casa, “come i lucchesi dopo la mietitura in Corsica”, scrive Dumas in “La camorra e altre storie di briganti”.
È sempre stata questa la versione prevalente. Il sole, il mare, la bella stagione di La Capria. Eppure, “Donna Carmela d’inverno ricama in oro sul velluto” (Matilde Serao, ne Il ventre di Napoli). Esiste un’altra stagione che può offrire un prodotto così? Campioni d’inverno: donna Matilde avrebbe apprezzato. L’inverno è dispettoso e ironico, appassionato, smargiasso. L’inverno è più napoletano dell’estate. Soprattutto l’inverno come lo conosciamo noi. Nel gennaio del 1854 Giuseppe Verdi scrive all’amico Cesare De Sanctis: “Spero, se non ho potuto quest’anno, di passare almeno una parte dell’inverno venturo tra voi, che sono stanco di queste nebbie e di questo freddo”. Avrebbe voluto comporre a Napoli. Nella “brutta stagione”.
Fu Salvatore Di Giacomo ad andare in modo sfacciato contro corrente. Nella rivista domenicale “La Cronaca rosa” (numero del 10 agosto 1884), pubblica un testo dal titolo “In laude dell’inverno”. Non era stato mai più ripubblicato prima che lo ripescasse Toni Iermano in “Le scritture della modernità” (Liguori). Di Giacomo scrive: “Il dolcissimo inverno napoletano mette le anime dei sognatori in una serena contemplazione e le fa vagolare”. Non sono le stelle e il sole a farci fantasticare, è il freddo da cui Luca Cupiello si proteggeva. Vagoliamo coi gol di Higuain e non lo sapevamo. “Nell’estate – dice Di Giacomo – la tempra si piega a sfinimenti e a mollezze. Gli innamoramenti del mare e della campagna sono manierati, convenzionali. Il gelato è una volgarità. L’inno dell’artista, dell’operaio, del povero maestro di scuola loda l’inverno fecondo e sereno, in cui le formiche vanno attorno a riempire i loro granai”. Tutto torna, lo vedete. Non è un maestro, forse, Sarri? “Nell’inverno dolce napoletano – continua – che vivificanti splendori di sole, che mattinate liete nel freddo leggero, che notti chiare, al lume bianco di luna. D’estate vi cruciano il sole e il vino. Voi stendete la mano sudata all’amico, mentre questi si asciuga la faccia col moccichino. Voi comparite nella conversazione delle signore con incollati alle tempia i capelli, con sudore ai pomelli, che ve li fa luccicare. La gente che abita a gli ultimi piani non si deve permettere il lusso dei ricevimenti, al venerdì o al mercoledì. Espone le conoscenze, che giungono trafelate, a motteggiamenti che trovano complici né primi arrivati, i quali già ànno avuto tempo di rassettarsi. Abbasso dunque l’estate! Essa colpisce la dignità personale”. Non era forse estate quando Gonzalo sparò in cielo il rigore contro il Cile, in finale di Coppa America, facendo pensare e dire che forse fosse il caso venderlo? “Benedetto l’inverno! Chi è degli scrittori che maggiormente pensano quando scrivono, il quale non lo prediliga pel fuoco del camino e per una buona tazza di caffè carico; che movono, una appresso all’altra, le idee? E’ forse d’estate che galoppa la fantasia?”.
Galoppa d’inverno, invece. Nel ’54 è inverno quando riapre il teatro San Ferdinando e quando De Sica comincia a girare in città “L’oro di Napoli”. E’ inverno quando Totò torna in scena al Mercadante, nel ’57. Ed è inverno pure la sera in cui Eduardo, a distanza di venticinque anni dall’ultima volta, riporta in scena al teatro San Carlo la sua “Napoli milionaria” (1971). Per l’edizione del 1950 al cinema, lui stesso aveva composto una canzone, che Pino Daniele avrebbe poi eseguito molti anni dopo proprio al San Carlo: “Alluccammo ca passa vierno: more ll’ammore e more ‘a gelusia”. L’inverno bacia Napoli. Come accadde nel ’66 e nel ’76, gli anni di Sivori e di Vinicio, quando il primo premio della Lotteria Italia fu venduto in città: anni di anniversari tondi tondi, adesso. L’inverno di Napoli è in un bacio famoso, quello di Massimo Troisi a Giuliana De Sio sulla spiaggia di Miseno, le nuvole basse, il cielo grigio, i giacconi addosso. “Bravo, ci sei riuscito finalmente”. Il bacio di “Scusate il ritardo”. Quanto meno divertente, quanto meno poetica sarebbe stata quella scena con i raggi del sole?
Campioni d’inverno: una cosa dunque naturale. Cosa c’è da temere in inverno? Le ultime eruzioni del Vesuvio si sono registrate tutte fra la primavera e l’estate, che negli anni ’70 fu pure la stagione del colera. Il terremoto del 1980 ci fece piangere che era ancora autunno. Ma neppure un anno dopo la sua lode all’inverno, Di Giacomo fece retromarcia. Compose “Era de maggio”. A me piace pensare che dovette capire il trucco e come funzionavano le cose intorno a Napoli. Maledetta primavera.