Vittima della propria arroganza, il calcio ha pensato (e tuttora pensa) di poter anche favorire la diffusione del contagio. Ma siamo ancora in uno Stato di diritto
Il dibattito di questi giorni sul Juventus-Napoli è un dibattito falsato. E ormai non si tratta soltanto di tifoserie, ahinoi. Perché tutto è tifo. Basta leggere la Repubblica di stamattina – edizione cartacea – che evidentemente ha deciso di autosospendersi dal giornalismo quando si trattano temi che toccano la proprietà (John Elkann).
È vero: si è arrivati a uno scontro tra lo Stato e un’associazione privata. Il calcio è un’associazione privata. Si arrampica sugli specchi la Lega Serie A quando vuole equiparare il protocollo della Serie A – sia pure avallato dal ministero della Salute – all’intervento di chi (la Asl) è preposto dallo Stato alla tutela della salute pubblica. In proposito da leggere su Twitter la giurista Azzollini. È l’effetto perverso di un potere che nel corso degli ultimi ha decisamente tracimato i limiti del buon senso e della decenza. Non vogliamo tornare a dire che sono ventidue idioti in mutande che rincorrono un pallone. Ma nemmeno possiamo misurare l’importanza del calcio dai miliardi che muove (ormai sempre più debiti, visto che di soldi non ce ne sono). La salute pubblica è più importante dei miliardi. Sembrerà strano ma è così.
Quindi evitiamo in questo articolo di alimentare partigianeria. Anche di andare dietro a una sciocchezza detta ieri sera da Andrea Agnelli che ha lanciato ombre sul rispetto del protocollo da parte del Napoli. Tutto è stato deciso dalla Asl sin dal primo momento, da quando il Napoli ha comunicato la positività di Zielinski e del collaboratore di Giuntoli. Anche Agnelli dice sciocchezze.
La questione è un’altra. La questione è che l’arroganza e l’ingordigia del calcio hanno preso il sopravvento. Perché la scorsa settimana è avvenuto qualcosa di mai accaduto nel calcio ai tempi del Covid-19. E cioè il contagio di massa del Genoa che era stato comunque autorizzato a giocare con il Napoli. Oggi sono ventidue i calciatori positivi del Genoa che – presumibilmente – possono aver contagiato i calciatori del Napoli. Tutti la settimana scorsa lo hanno pensato. Lo ha pensato la stessa Federcalcio che ha imposto a Mancini di non convocare Meret e Di Lorenzo in Nazionale proprio per evitare il rischio di contagi.
La prima osservazione è una banale domanda: com’è che in Nazionale i calciatori del Napoli non possono andare e in campo contro la Juventus possono scendere?
Ma andiamo oltre. Chi ha sbagliato è stata la Lega Serie A (in Lega Pro per il medesimo caso la partita è stata rinviata). La Lega Serie A avrebbe dovuto rinviare Juventus-Napoli proprio per quel che è successo al Genoa (cui giustamente è stata data la possibilità di non giocare col Torino). Non lo ha fatto. Non sappiamo perché. Perché ha ricevuto pressioni dalla Juventus (che ovviamente preferiva giocare contro una squadra decimata)? Perché non hanno la lucidità di capire che agiscono in un territorio nazionale e con una pandemia in corso è semplicemente irresponsabile allargare il contagio? Perché sono ignoranti? Anche questo è un tema. È paradossale la vicenda cui stiamo assistendo. C’è un confronto sanitario tra lo Stato, le Asl che sono demandate alla tutela della salute pubblica, e un’organizzazione provata di persone che per tirare calci a un pallone non devono avere nemmeno la terza media. E nessuno che si alzi e metta fine a questo teatrino indecente per uno Stato di diritto. Nessun protocollo può autorizzare la diffusione del contagio.
Ha sbagliato Dal Pino. E adesso il suo calcio, la sua Serie A, rischia di impantanarsi. Il bambino viziato – ossia il calcio italiano – che l’ha avuta sempre vinta da un governo fin troppo debole, ha alzato la posta, non ha capito che era giunto il momento di fermarsi. Dispiace – ma non ci sorprende – che l’informazione stia giocando un ruolo di povertà assoluta. Ma tant’è. Temiamo che il calcio abbia imboccato un vicolo cieco. Dar ragione al calcio, oggi, vuol dire avallare la deregulation più totale. È giunto il momento che il calcio torni nei suoi binari. Di sport nazionale, ma che appunto si svolge in una nazione che ha capisaldi non negoziabili. A maggior ragione con chi non ha studiato.