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Marcolin: «Il virus si è portato via mio padre, ma il calcio deve ripartire»

Intervista a Repubblica Napoli: «I più penalizzati dalle porte chiuse saranno i tifosi. La maggior parte dei giocatori non ha paura dei contagi. Piuttosto bisognerà stare attenti agli infortuni»

Marcolin: «Il virus si è portato via mio padre, ma il calcio deve ripartire»

Repubblica Napoli intervista l’ex calciatore (anche del Napoli, quando era in serie B) Dario Marcolin. Il virus ha portato via anche suo padre.

«Alla fine di marzo il coronavirus si è portato via pure “il Gianca”, mio padre: è successo all’improvviso e a volte penso a un brutto incubo. Lui abitava a Brescia e non ho potuto dargli neppure l’estremo saluto».

Nonostante ciò, Marcolin si schiera per la ripartenza del calcio.

«Le nostre vite devono riprendere il loro corso e dal pallone può arrivare una spinta verso la normalità: lo dico da vittima di questa tragedia, oltre che per la mia lunghissima esperienza da addetto ai lavori, come giocatore, allenatore e adesso nel mio nuovo ruolo di commentatore tv».

Ricorda il periodo del Napoli, quando fu anche capitano per 18 mesi.

«Ho tanti bei ricordi di quel periodo e uno orribile: le 5 partite che fummo costretti a disputare in campo neutro e a porte chiuse nello stadio di Campobasso, nell’autunno 2003, per la squalifica del San Paolo. Fu come prendere una bastonata, per noi del Napoli. Cominciò tutto nel derby al Partenio contro l’Avellino, con gli incidenti in tribuna e la tragica morte di un giovanissimo sostenitore della nostra squadra, Sergio Ercolano. Il club fu punito per responsabilità oggettiva, con una sanzione drastica».

La punizione fu di giocare cinque gare a porte chiuse in campo neutro.

«Intorno a noi c’era una atmosfera tristissima. Ricordo i ritiri alla vigilia delle cinque partite a Campobasso e quel silenzio durante il riscaldamento prima del fischio d’inizio, che era il momento più deprimente per noi giocatori. Tornare al San Paolo fu una vera liberazione».

Le porte chiuse non penalizzeranno tanto i calciatori, dice, quanto i tifosi.

«La mancanza dei tifosi la avverti in campo solamente per tre o quattro minuti, quando l’arbitro dà il via alla sfida. Poi prevale l’adrenalina e tutto quello che c’è intorno diventa invisibile. I più penalizzati saranno i tifosi, purtroppo: dovranno accontentarsi della tv. Ma è una situazione di emergenza in tutti i settori e bisogna adattarsi e venirsi incontro: le porte chiuse per adesso sono necessarie».

I calciatori non devono temere i contagi, perché sono super controllati già in tempi di pace, figuriamoci adesso, spiega.

«Non prevedo alcun condizionamento mentale per chi andrà in campo».

Se toccasse a lui giocare non avrebbe paura.

«Certo che no, ma la maggior parte dei giocatori la pensa come me. Piuttosto bisognerà stare attenti agli infortuni, dopo due mesi di inattività. Il lavoro a casa non basta per salvaguardare il tono muscolare. Ci vorranno due o tre settimane di allenamenti per tornare in forma».

 

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