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Il significato del ritorno, da Ulisse a Reina

Il significato del ritorno, da Ulisse a Reina

È dai tempi di Ulisse che qualcuno ritorna. È da allora che l’uomo si domanda cosa sia questa necessità di rivedere un posto dove si è stati felici. Il ricordo non basta, deve rivivere. Ci interroghiamo ancora, se tutto questo cercare e tornare sia natura o forzatura. Tirando infinite volte tre dadi a sei facce, ognuna delle 216 combinazioni potrà comparire infinite volte. Questo diceva Nietzsche per convincersi che tutto in fondo sia un infinito ritorno, finanche il caso, aprendoci la porta al concetto secondo cui ogni dolore e ogni gioia dovrà ripassare di qui, “e non ci sarà in essa (nella vita) mai niente di nuovo”.

È dai tempi di Ulisse che qualcuno ritorna, perché stupirsi di Pepe Reina? Ma perché sia vero nóstos c’è bisogno ci sia una casa che aspetta, degli affetti, un focolare. I vangeli riaccompagnano nei vecchi luoghi il figliol prodigo, e perciò il ritorno nella visione cattolica è una riparazione, un ripensamento felice, un discorso che riprende dopo una parentesi di cui farsi perdonare. Uccidete il vitello grasso e fate festa, più che per un figliolo fedele che da qui non se n’è andato mai, e mai penserebbe di andarsene. Un Hamsik per esempio. Il ritorno rimette in circolo le emozioni, o le ravviva o le distrugge per sempre. Per questa ragione il ritorno è un rischio, anche se nello sport va sempre più di moda perché piace alla folla, seda l’ambiente, inietta endorfine, euforizza o addormenta, eccita o fa assorbire il dolore. Come Mourinho al Chelsea e Mancini all’Inter. Meno bene è andata alla Ferrari con Raikkonen. Il Milan ci ha sperato con Ancelotti e Ibra.

Il ritorno è un ricatto, una trappola, un’insidia. Un ritorno non è possibile se prima non c’è stata una fuga, ma una fuga senza ritorno è meno coraggiosa. Abbiamo visto tornare Vinicio, come allenatore dopo essere stato giocatore, e poi con una seconda esperienza in panchina, assai meno felice della prima. Si torna perché la patria ti chiama, come successe a Cincinnato e da noi Ottavio Bianchi, tornato dopo lo scudetto per raddrizzare il Napoli di Ranieri che affondava nel mal di schiena di Massimo Mauro. Oppure Rino Marchesi, signore dellla panchina, allenatore prima dello scudetto sfiorato con Krol, poi  di una salvezza con Dal Fiume, infine di Maradona. È tornato Oscar Damiani, è tornato Walter Speggiorin. È tornato molte volte Bruno Pesaola, ma forse sarebbe più giusto dire che non se n’era andato mai. È tornato Cané, è tornato Gargano. L’istituto dei prestiti ha reso il ritorno un affare meno letterario e più da ragionieri. Tornano a casa le anguille, tornano al luogo dove sono nate per riprodursi lì. È la perfezione circolare del ciclo della vita. Anguilla si chiama il personaggio di Cesare Pavese che ne “La luna e i falò” dice: “Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perche la sua came valga e duri qualcosa di più di un comune giro di stagione”. Arriverà allora una papera di Reina, ma non sarà più importante di questa sua voglia di essere uno di noi.
Elena Amoruso

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