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I quindici giorni di Sarri ad Avellino. Capì subito che lo avevano preso in giro

I quindici giorni di Sarri ad Avellino. Capì subito che lo avevano preso in giro

A Sturno non ci passi mai per caso. Neanche se sbagli incrocio oppure buchi un paio di ruote e poi, disperato, rotoli giù a valle. A Sturno, budello dentro l’Irpinia protesa verso il foggiano, c’era l’Avellino dei fratelli Pugliese che preparava l’ennesimo campionato di serie B dopo l’ennesima promozione agli spareggi che avrebbe anticipato l’ennesima retrocessione. Il vecchio Giovanni Vavassori aveva già mollato a luglio o l’avevano indotto a mollare, non s’è mai capito. Non ricordo, o forse provo fastidio a rovistare negli angoli della memoria. Il 18 di luglio, anno 2007, ai giornalisti fu presentato Maurizio Sarri, un allenatore taciturno che in Toscana, ad Arezzo, era il padre severo di Antonio Floro Flores. Fabrizio Lucchesi, il direttore sportivo con marcato, a volte stucchevole accento toscano, prese di fretta Sarri per colmare il clamoroso e sospettoso vuoto in panchina durante il raduno. Ora dovete sapere che i fratelli Pugliese sono i genitori del fallimento dell’Unione Sportiva Avellino 1912. Il più grande, Massimo, è un venditore di ingannevoli realtà. Sembrava avesse soldi, invece possedeva un calesse. Poco o niente. Soltanto megalomania. Il più piccino, Marco, vantava un rapporto con Forza Italia e, di conseguenza, col Milan. Dopo una legislatura anonima a Montecitorio, il suo destino mi è sconosciuto.

Mi perdonerete la lunga premessa e il mio racconto in prima persona, ma in quegli anni ero un giornalista che seguiva l’Avellino per le testate locali, e non ho mai adorato i fratelli Pugliese. Di Sarri, a Sturno, ho un’immagine, il fumo di una sigaretta accesa dopo l’altro. E forse una seconda immagine: il volto corrucciato mentre parlava Lucchesi o un Pugliese. Adesso mi salta agli occhi un Sarri in silenzio e nervoso, che attende la squadra impegnata con la merenda del pomeriggio. Il campo era ridicolo, più che pietoso. La società, ripeteva Sarri, era disorganizzata. Aveva accettato, però, l’offerta di Lucchesi perché gli avevano garantito un mercato dignitoso e una preparazione eccellente. In meno di un paio di settimane, osservando l’andirivieni di scarti di Juve o Parma o falsi miti di serie inferiori, Sarri capì che lo stavano fregando. I tifosi apprezzavano la sua dedizione negli allenamenti, la ricerca del palleggio, del gioco spettacolare però non barocco, la serietà nel metodo. I giornalisti, che spesso sono propaggini del padrone, non percepirono niente. Anzi in tanti scrissero che l’ex Arezzo voleva abbandonare per motivi personali. Sarri attese agosto e una partita di coppa Italia, un 2-0 a domicilio al “Partenio”, per salutare. In verità, neanche salutò più di tanto. Aveva perso tempo, l’avevano preso in giro. La città era distratta dall’arrivo di Alessandro Calori, bravo a ottenere il risultato previsto: la retrocessione. Un anno più tardi, il fallimento.
Carlo Tecce

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