Su Repubblica l’intervista all’immunologo direttore dell’Humanitas: «Siamo sulla strada giusta ma è presto per cantare vittoria, il virus è un nemico che non conosciamo. Vaccino in 18 mesi»
Repubblica intervista Alberto Mantovani, immunologo, direttore scientifico dell’Istituto Humanitas.
«Siamo sulla strada giusta. Ma credo sia ancora pericoloso cantare vittoria, perché abbiamo a che fare con un nemico che non conosciamo. E perché le partite si vincono sempre al novantesimo».
I dati degli ultimi tre giorni invitano a proseguire il cammino.
«Sono dati incoraggianti. Che però ci dicono che si deve continuare così, con le misure draconiane in atto. Tanto al Nord, più colpito finora, quanto al Sud: in un secondo momento potremo ragionare su come mitigare il contenimento, ma non ancora».
In questo momento occorre concentrarsi sulle cure.
«Dal punto di vista della ricerca, un fronte da esplorare è quello della immunità e degli anticorpi: il più grande esperto al mondo di coronavirus, Ralph Baric, anche sulla base dell’esperienza della Sars ritiene che il Sar-CoV-2 lasci una “traccia immunologica” nel nostro organismo almeno per un arco che va da 6 a 12 mesi. È dai saggi degli anticorpi, ossia dalla loro misurazione, che si potrà iniziare a “tracciare” il virus nella popolazione. Dal punto di vista epidemiologico, ma non solo».
Spiega che la questione tamponi è complessa.
«Nell’ultimo mese ci siamo trovati al centro di uno tsunami. Senza la capacità tecnologica, la disponibilità di reagenti e abbastanza laboratori validati per una mole di analisi così ampia. L’analisi di un tampone è un procedimento complesso, che richiede circa 4 ore ma fotografa solo un istante, tanto che deve essere ripetuto più di una volta. I falsi negativi sono tanti, questi tipi di test hanno dei limiti. Non a caso si stanno conducendo varie sperimentazioni per trovare nuovi metodi, come quello dell’azienda DiaSorin, che ha sperimentato un test, appena approvato dalla Fda statunitense, che consente di avere il risultato in un’ora. Detto ciò, pur con tutti questi limiti, credo che sia importante garantire agli operatori la possibilità di fare i tamponi: sono la nostra prima linea, vanno sostenuti».
In che senso?
Mantovani si esprime anche sulla sperimentazione dei farmaci, come l’Avigan.
«In questo momento si sta facendo medicina di guerra: nell’emergenza vengono usati strumenti terapeutici diversi, pur senza avere evidenza chiara del loro funzionamento, con l’obiettivo di aiutare un paziente».
L’Avigan ma anche altri due anti-retrovirali utilizzati in combinazione in Cina non sembrano utili su pazienti in stato avanzato di Covid-19, spiega.
«A dimostrazione che stiamo combattendo una guerra, ma che si deve coniugare la medicina di emergenza con il rigore della sperimentazione clinica, come anche enfatizzato in un report in via di finalizzazione della Commissione Salute dell’Accademia dei Lincei».
Per il vaccino, invece, ci vuole ancora tempo.
«Oggi sono in corso una ventina di studi, tra cui uno a Pomezia, dove già hanno sperimentato con successo il vaccino contro Ebola. In modo realistico, ci vorranno almeno 18 mesi prima di avere un vaccino. Che poi dovrà essere prodotto non in milioni, ma miliardi di dosi».
In ogni caso, anche al termine dell’emergenza, il virus non scomparirà del tutto.
«Potremo abbassare il livello di guardia. Ma non del tutto: il virus non scomparirà, in alcuni Paesi intorno a noi è arrivato più tardi e in altri deve ancora arrivare. Bisognerà adattare il livello della guardia a questa situazione reale».
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