A Repubblica il capo della Protezione civile: «Senza conferenza, ci accuserebbero di nascondere le cose. Col senno di poi, Atalanta-Valencia è stato un detonatore»
Repubblica intervista il capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli. Commenta i dati degli ultimi due bollettini, che mostrano un leggero rallentamento del numero dei contagi (che comunque sono altissimi, 63mila). Ritiene, come ha detto ieri in conferenza stampa, che sia un indizio che gli effetti delle misure restrittive introdotte dal governo due settimane fa iniziano a farsi sentire.
«Il 31 gennaio questo governo ha dichiarato lo stato di emergenza e bloccato i voli da e per la Cina, mi sembra che abbiamo compreso subito che questa epidemia era una cosa seria ».
Borrelli non è pentito di non aver chiuso tutto subito.
«Come insegnano i protocolli di Protezione civile, l’intervento deve essere sempre proporzionato al rischio».
Ci sono stati comportamenti pubblici che hanno peggiorato la situazione.
«La comitiva del Lodigiano che il ventitré febbraio è andata a Ischia portando il contagio sull’isola. E i primi positivi a Palermo, con i ventinove bergamaschi in vacanza in Sicilia. Con un virus così rapido, gli atteggiamenti sociali sono stati decisivi».
Sulla partita Atalanta-Valencia a San Siro del 19 febbraio, con 46mila spettatori, quando l’Italia era già in emergenza da tre settimane:
«Potenzialmente è stato un detonatore, ma lo possiamo dire ora, con il senno di poi».
Borrelli riconosce che il numero di contagiati è in realtà superiore a quello ufficiale (63 mila).
«Il rapporto di un malato certificato ogni dieci non censiti è credibile».
Sono 600 mila, un numero impressionante.
Ha senso di fronte a questo tenere una conferenza stampa ogni giorno sui numeri?
«Mi sono posto anch’io il problema e ricevo molte mail che mi chiedono di fermarci. Possono essere dati imperfetti, ma dal primo giorno ho assicurato che avrei detto la verità, è un impegno che ho preso con il Paese. Se ora ci fermassimo ci accuserebbero di nascondere le cose. E poi eravamo in mano alle singole Regioni, ai numeri degli assessori alla Sanità. Nelle prime settimane è stato il caos. A fatica siamo riusciti a ricondurre i governatori alla ragione, adesso non possiamo fermare questo appuntamento nazionale».
Il problema più urgente, in questo momento, è l’approvvigionamento di ventilatori e mascherine, ma diversi paesi hanno bloccato le esportazioni.
«Vogliono essere pronti per i loro picchi. Siamo intervenuti con le ambasciate, ma temo che mascherine dall’estero non ne arriveranno più. Deve partire la produzione nazionale, prima possibile. L’Italia su certi beni così importanti, ora capiamo vitali, deve cambiare traiettoria, fare scorte, reinsediare filiere sul territorio. Altri Paesi hanno mantenuto questi presidi. Il mercato corre molto più veloce di noi. Penso alle casette per il terremoto, dovremmo tenerne nei magazzini in quantità abbondanti. Non è così».
E soprattutto, ad ostacolare, è anche la burocrazia.
«Noi, per troppo tempo, ci siamo dovuti rivolgere alle strutture centralizzate degli acquisti pubblici, procedure lente. Ora sono diventate legge tre norme, e in particolare l’articolo 71 che ci restituisce la possibilità di acquistare al di fuori del codice degli appalti. Oggi, per questa emergenza, rispondiamo solo di fronte al dolo conclamato. Nei momenti speciali servono leggi speciali e qualsiasi dirigente non deve aver paura a mettere una firma. La Protezione civile ha bisogno di rapidità: non siamo burocrati, ma, come si diceva nel 1915, volontari del Regno che devono godere della fiducia dei governanti e della nazione. Sulle mascherine siamo arrivati tardi ».