Repubblica intervista il 31enne Marco Ceresoli, di stanza all’ospedale di Bergamo: «È arrivato il momento di restituire quanto ho ricevuto. Meglio che i rischi li corra io che un collega settantenne rientrato dalla pensione»
Mentre c’è chi, in Campania, rifiuta di lavorare negli ospedali tentando una corsa al rialzo della paga, a Bergamo le cose vanno, per fortuna, diversamente.
Su Repubblica, oggi, l’intervista a uno specializzando in chirurgia che ha accettato di dare una mano alla sua città. Si tratta di Marco Ceresoli, 31 anni, arruolato con il bando della Protezione civile al Papa Giovanni XXIII di Bergamo.
«Sono bergamasco e vivo da qualche anno a Milano, dove faccio la scuola di specializzazione. Nel momento del bisogno mi sono detto: vado a dare una mano alla mia città».
Racconta che sono tanti gli specializzandi che hanno fatto altrettanto.
«L’Università ci ha sostenuti in questa decisione. Del resto è arrivato il momento di fare il nostro mestiere, quello per cui ci stiamo preparando. Forse è anche un fatto di riconoscenza. Ho studiato per 12 anni e in Italia la formazione è tutta pubblica. È arrivato il momento di restituire quanto ho ricevuto».
Marco racconta l’impatto con il lavoro, le modalità con cui è svolto.
«Nei reparti si lavora in coppia, uno di noi è “sporco”, indossa tutte le protezioni e si avvicina ai malati per visitarli. L’altro è “pulito”, cioè resta a distanza e raccoglie le informazioni sul computer. Siamo preparati ma vista la situazione spesso bisogna correre. I pazienti si scompensano velocemente. Si alza la febbre all’improvviso e iniziano a desaturare, cioè si abbassa la saturazione dell’ossigeno nel sangue. È necessario intervenire subito per aiutarli a respirare».
Dei pazienti, dice,
«Colpisce la loro solitudine. Qualcuno riesce col telefono ad avere contatti con l’esterno ma spesso siamo noi che una volta al giorno chiamiamo i parenti. Oltre che a curarli pensiamo a farli sentire meno soli: a volte basta una stretta di mano o una parola. A volte no».
Il lavoro è duro, ma l’accoglienza ricevuta dai colleghi è stata calorosa.
«L’accoglienza dei colleghi è stata molto calorosa ma non c’è tempo per tante presentazioni con tutti questi malati da seguire. Lavorano fianco a fianco colleghi di specialità diverse: ematologi, psichiatri, senologi, noi chirurghi. Poi ci sono tantissimi infermieri. C’è molto da imparare. L’impegno è tanto ma noi bergamaschi siamo fatti così: testa bassa e si lavora».
E non si lamenta nemmeno dei rischi di contagio a cui sono esposti i medici.
«So cosa bisogna fare per evitare i contagi e abbiamo i dispositivi necessari. Certo, ci sono dei rischi ma è meglio che li corra io piuttosto che un collega settantenne rientrato dalla pensione».