Gli striscioni esposti in Curva Sud contro la madre di Ciro Esposito sono incommentabili. Potremmo dilungarci ma il senso è chiaro. Disgustosi. Le conclusioni cui è giunta l’inchiesta della Procura di Roma sono insufficienti: in quasi un anno non si è riusciti a sapere nulla di più sull’azione che ha portato all‘uccisione di Ciro da parte di Gastone, la posizione dei suoi complici è stata stralciata. Non sappiamo nulla di più di quanto non sapessimo due settimane dopo la finale di Coppa Italia. Dopo quella sciagurata serata, il governo Renzi promise il classico un giro di vite, il pianeta calcio sarebbe stato rivoluzionato. Nulla è accaduto: nessuna delle autorità preposte all’ordine pubblico ha pagato. Prefetto e questore furono difesi dal ministro dell’Interno Angelino Alfano che è ancora al suo posto. Delrio, invece, non c’è più alla sottosegreteria alla presidenza del Consiglio ma per altri motivi: è andato a sostituire Lupi alle Infrastrutture. Un provvedimento normativo è stato adottato ma senza la collaborazione dei club si andrà poco lontano.
Quella sera,il 3 maggio, come ribadito più volte, Genny ’a carogna svolse alla perfezione il ruolo di arma di distrazione di massa. Assunse sulla sua persona i mali di un intero sistema. Un sistema che da sempre fa finta di non vedere quel che accade negli stadi italiani (non solo in Curva Sud): a noi comuni mortali sequestrano di tutto mentre nelle curve chi ha “potere” può agire con grande disinvoltura, come se fosse il padrone di casa. Sono francamente ridicole le dichiarazioni relative all’individuazione di chi ha esposto quello striscione. Lo sanno da sempre chi è stato. Lo sanno le forze dell’ordine. Lo sanno le società di calcio. Lo sanno le autorità competenti. A Roma. A Napoli. A Milano. Ovunque. Non c’è bisogno di visionare i filmati.
C’è anche un’altra coscienza civile. A Londra qualche settimana fa è montata l’indignazione per l’episodio di razzismo dei tifosi del Chelsea nel metrò di Parigi. Qui non è così. Magari perché siamo rassegnati.
A Napoli due settimane fa lo speaker ha letto rapidamente le formazioni e non ha inneggiato al gol di Zapata in segno di lutto per la morte di uno storico capo-tifoso. A detta di tutti una gran brava persona. Il punto resta. Difficilmente il Napoli si metterà a lutto per chi ci lascia dopo aver frequentato lo stadio per decenni. Nelle intercettazione del processo relativo al calcio scommesse è comparso un sms di Antonio Conte, allora allenatore dell’Atalanta, che manifestava il suo dispiacere a un ultrà bergamasco che aveva subito un Daspo. Nessuno ha detto A. La notizia a stento è rimasta qualche ora sui siti.
Il giocattolo non si è rotto. Si è dissolto. Allo stadio non ci va più nessuno. I dati relativi alle presenze sono spaventosi. Non è un luogo per persone che vogliono un pomeriggio non dico di spensieratezza ma anche di sano agonismo sportivo. Chi ci va lo fa a suo rischio e pericolo. Anche l’odio ci hanno trasmesso. Senza che ce ne accorgessimo, almeno io, mi sono ritrovato ad avere come nemici i romanisti, e parlo di una scoperta di un bel po’ di anni fa, quando la storia tra queste due città è sempre andata in tutt’altro verso
Lo abbiamo scritto decine e decine di volte: per frasi ingiuriose, altrove, le società espellono i responsabili a vita dallo stadio. Lo fanno i club, ovviamente spalleggiati dallo Stato. Da tempo, invece, in Italia si è deciso di non rispettare i “clienti” normali, ma di privilegiare i tifosi organizzati, quelli che spesso gestiscono affari commerciali col beneplacito delle società di calcio. Basti ricordare che il primo atto della presidenza Tavecchio è stato quello di depotenziare la norma sui cori razzisti che poi erano cori contro Napoli. Si era innescato un circolo per loro vizioso: incapaci di allontanare dagli stadi i razzisti, i club hanno preferito annacquare la norma.
In un anno – ma sarebbe più corretto dire in trent’anni – il mondo del calcio ha messo la testa sotto la sabbia. E, come spesso accade quando un episodio buca il mondo dell’informazione, finge di indignarsi. Del resto Fabio Capello lo disse chiaro e tondo: il calcio italiano è in mano agli ultrà. Spesso sulla Gazzetta se ne occupa un valido giornalista come Franco Arturi. Gli stadi italiani non sono luoghi per famiglie. La gestione dell’ordine pubblico è condivisa, frutto di una costante trattativa con una serie di persone che ha fatto del sostegno alle proprie squadre un lavoro. Non è la criminalizzazione degli ultrà, ma è un dato di fatto. Fin quando non ci sarà parità di trattamento tra i “normali” spettatori e gli altri, nulla cambierà. Ci sono alcuni spettatori – ben noti a tutti: forze dell’ordine, società e autorità – che godono di privilegi e che impongono le loro regole al resto del pubblico. Per carità, ormai ci siamo abituati. Può restare anche tutto così, almeno risparmiateci la finta indignazione.
Indignazione che passerà anche stavolta. Ci vorrà un giorno, forse una settimana, poi passerà. Certo, ha ragione lo zio di Ciro, Vincenzo Esposito: la Roma dovrebbe dissociarsi. Forse lo farà, forse no. Di certo sa chi sono. Come lo sanno tutte le società. Come lo sa chi governa il nostro calcio.
Spero di non essere stato frainteso. Incondizionata solidarietà alla signora Leardi e alla famiglia Esposito. Ma quella che sta montando a livello istituzionale è solo un’ulteriore pantomima. Una farsa gattopardesca.
Massimiliano Gallo