Sono due mesi che Pino Daniele non c’è più. Furono giorni tristi, per la morte di un artista che incarnava Napoli, e anche spiacevoli perché come al solito è diventato sempre più difficile (a Napoli e non solo) poter esprimere un’idea “altra” senza subirne il conseguente sciame di offese.
Oggi il Corriere del Mezzogiorno pubblica un’intervista inedita a Pino Daniele realizzata nel 1979 da Pasquale Scialò e Stefano De Matteis. Più tardi la possiamo riproporre integralmente. Riproponiamo una sola risposta di Pino Daniele, a proposito di quella che lui chiama napolitudine. Quella napolitudine che si è impossessato lui nei giorni immediatamente successivi alla sua morte.
Quando fai concerti fuori dove li tieni e qual è la risposta del pubblico?
«Non in locali o roba del genere. Trovo l’ostacolo maggiore nel dialetto. Io però mi chiedo: siccome la gente ascolta la musica inglese perché non deve ascoltare anche la musica napoletana? L’inglese è una lingua europea, una lingua mondiale mentre il napoletano è ristretto anche se lo trovo più musicale. Riportandoci un po’ al discorso precedente, io non mi reputo assolutamente un cantante napoletano, né faccio la canzone napoletana. Faccio un certo tipo di musica con colore napoletano, perché uso il dia- letto, perché uso dei giri armonici particolari; mentre invece in altri momenti sono tipicamente americano. Nel primo disco sono stato accusato di oleografia da un certo punto di vista. Io sono perfettamente d’accordo perché sono pezzi nati cinque anni fa quando di Napoli di certe cose se ne parlava ben poco. Oggi che è stato strumentalizzato questo fatto napoletano io non me la sono sentita, sono andato avanti, mi sono liberato da questi marchi, da questi made che mi stanno addosso: ‘o pazzariello, ‘a pizza, ‘o Vesuvio, il mare, il sole, oggi cerco di esprimermi in un altro modo. Infatti col secondo disco ho cercato di allontanarmi un po’ da questa “napolitudine” che ormai è diventata troppo scontata, troppo… si è prostituita hai capito?! Sono stati sfruttati proprio i canoni napoletani per fare i soldi. Questo è!».
C’è anche un passaggio in qualche modo profetico così come ingenuo.
«Il discorso è questo, molto semplice. Io vivo in una società che è completamente americana al cento per cento anche se ci sono dei modi di vivere ancora legati alla tradizione napoletana. Io cerco di trovare la via giusta per unirli anche se forse ci riuscirò a quarant’anni, a cinquant’anni, non lo so, o ci riuscirò domani mattina. A me interessa il jazz, il blues non parlo della west coast, non parlo di Dylan. Anche se Dylan e altra gente fanno blues sono dei fenomeni troppo grossi. Sono stati strumentalizzati perché tu sai benissimo che il sistema acchiappa qualsiasi cosa che dà fastidio e la strumentalizza. Anche io se venderò 500.000 copie, spero mai, perché sarei arrivato alla rovina, sarei strumentalizzato. Mi interessa vendere quelle 50.000 copie che mi permettono poi di andare avanti e di continuare nel tempo il mio discorso».
Vendere non significa per forza vendersi!
«E appunto questo voglio dire. Però vendere migliaia e migliaia di dischi è pericoloso perché entri in certi canali particolari e quindi perdi la credibilita? da parte di molta gente. Ecco l’abbiamo visto col fenomeno Bennato no (si riferisce a Edoardo, ndr), ha perso molta credibilità anche se lui è rimasto, penso io, quello di dieci anni fa. Hai capito?».