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Clerici: «Lasciai Napoli con grande rammarico. Fu una soddisfazione segnare più gol di Savoldi. Oggi il calcio è fisico e soldi»

Clerici: «Lasciai Napoli con grande rammarico. Fu una soddisfazione segnare più gol di Savoldi. Oggi il calcio è fisico e soldi»

Quando la Lazio gli diede la lista gratuita nel 1978, si estinse la “legione straniera” che in tante occasioni era stata maestra per il calcio italiano. Sergio Clerici prese l’aereo, volò in Canada e iniziò ad insegnare la difficile arte del gol nel Castor Montreal. Una esperienza che durò poco, “El Gringo”, preso dalla saudade, tornò in Brasile ed allenò il Santos e il Palmeiras per un paio di stagioni. Poi smise definitivamente col campo e si diede alla scoperta di talenti brasiliani per il mercato europeo e soprattutto italiano visto che aveva giocato in ben sette squadre diverse (l’unico straniero della storia a cambiare così tante maglie) e continuava ad avere buoni rapporti con tutti. Fu una sorta di “ultimo dei Mohicani” perché andato via lui il campionato diventò tutto fatto di giocatori italiani prima della riapertura ad inizio anni ’80.

Clerici, zingaro di lusso con Lecco, Bologna, Atalanta, Verona, Forentina, Napoli e Lazio, era giocatore straordinario in campo e fuori. Mai una polemica, mai un capriccio, nel rettangolo verde era un leone indomabile con una tecnica sopraffina ed un piede fatato e molto ben educato. Svelto a scippare i gol nelle intasate aree avversarie, agile nei movimenti sulla fascia e delizioso sui cross per il compagno in area. La sua più bella pubblicità sono stati i gol, non altro. Ha combattuto senza mai tirarsi indietro badando più agli interessi della squadra che al suo tornaconto. Fosse stato egoista avrebbe ottenuto anche maggiore fama ma il suo carattere non glielo permetteva. Sergio Clerici, che Pacileo chiamava “il ragazzo di Arararaquara”, era questo e tanto ancora. Un giocatore di cui fu buttato lo stampo dopo il parto.

Abbiamo ripreso questa intervista che lo scrivente aveva “congelato” momentaneamente e che si era ripromesso di proporre alla prima occasione. Il caso ha voluto che si va a giocare col Sassuolo, la squadra più italiana del campionato con soli tre stranieri (Taider, Vrsalijko e Lazarevic) e l’idea prende piede. Come sappiamo, Sergio Clerici è stato l’ultimo straniero a lasciare il nostro campionato nel 1978 prima della chiusura delle frontiere. Allora l’annosa questione, di cui da quasi un anno si discute animatamente, vale a dire che nel calcio italiano ci sono troppi stranieri, che questi non sempre fanno bene perché tarpano le ali ai giovani interessanti, che tolgono spazio ai nostri talenti, si ripropone proprio col Sassuolo. Una squadra che è la dimostrazione viva e pulsante che si può fare anche dell’ottimo calcio con il 90% di giocatori autoctoni e con una manciata di stranieri. Anzi, per gli italianisti convinti, proprio i neroverdi emiliani potrebbero essere un modello da seguire. Largo spazio agli italiani (Zaza, Berardi, Consigli, Magnanelli, Sansone, Antei, Longhi ) e pochi stranieri ma buoni. Inutile riempire le rose di giocatori provenienti da tutto il mondo e non utilizzare quello che si ha in casa, il calcio si può fare anche come fa mister Di Francesco, senza ricorrere a nomi esotici e spesso impronunciabili.

L’INTERVISTA

È un freddo giorno di febbraio su un campo della Toscana. Sciarpa, cappotto ed un vento gelido e tagliente fa capolino sul verde del rettangolo di gioco. Aspetto l’arrivo del bus della Londrina con ansia, a bordo c’è uno degli idoli della mia infanzia, un sogno che si realizza. Quando arriva, invecchiato ma con lo spirito del giocatore “filibustiere” fino al midollo, sembra veramente un gringo con quella sua andatura da film western. Con i suoi amici parla un dialetto che mi dà l’impressione di essere una via di mezzo tra la lingua parlata dagli indios e il brasiliano classico. Veste con una tuta blu, ci accomodiamo su una panchina ed iniziamo a chiacchierare….

Allora, a 18 anni sbarchi alla Malpensa perché ti chiama il Lecco. Quali erano i tuoi sentimenti di allora nell’affrontare questa avventura italiana?
Hai detto bene, per me era una avventura che iniziava, era un periodo in cui si poteva venire qua, furono riaperte le frontiere ed io giocavo in una squadra neanche tanto conosciuta, la Portuguesa Santista. Per me fu una sorpresa venire qua, cercato da una squadra italiana che puntava su di me, il Lecco. Avevo tanta nostalgia del mio paese e pensavo di poter resistere poco. Partii da un clima completamente diverso ma sapevo di dover affrontare un po’ di difficoltà nei primi tempi. Infatti, in pratica, le difficoltà le ho trovate tutte ma poi il tempo passa e riesci a capire cosa è il calcio italiano, ad abituarti. In Italia, anche se ho giocato spesso in squadre di provincia, mi sono sempre trovato bene.

Dopo aver smesso hai iniziato la carriera di allenatore col Santos ed il Palmeiras ma poi sei stato scopritore di talenti…
Sì, la carriera di allenatore non mi si addiceva, ho sempre prediletto il campo e non la panchina. Però stando in Brasile avevo l’opportunità di seguire dei calciatori e ogni tanto qualche società mi chiamava per chiedermi di qualche “talento”. In Italia portaii diversi giocatori, il primo fu Juary quando Vinicio allenava l’Avellino, poi Evair e Bianchezi all’Atalanta. Cercavo di trovare delle sorprese, dei futuri campioni. È troppo facile segnalare i grandi giocatori, preferivo individuare atleti che venendo in Italia riuscivano ad esplodere diventando campioni affermati.

Senti ancora qualcuno del Napoli degli anni 70, hai rapporti con qualcuno di quella magnifica squadra?
I rapporti ce li ho sempre, ad esempio con Vinicio che, oltre ad essere il mio allenatore, è stato un amico per me…

È vero che parlavate in italiano tra di voi?
Sì è vero, eravamo in Italia, perché non dovevamo parlare in italiano? Era anche una forma di rispetto verso i compagni, altrimenti credevano che parlavamo diversamente dagli altri per nascondere qualcosa… Juliano è un altro a cui sono rimasto molto legato. Quando faceva il direttore sportivo negli anni della Serie B (n.d.r. 1998-9 ) andavo a trovarlo ogni volta che venivo giù. Col tempo anche con Ferlaino ho dimenticato il periodo brutto della cessione, nonostante io ci sia rimasto molto male. Avevo fatto 29 gol in due anni, mi aspettavo la riconferma ma una piccola soddisfazione me la sono presa perché nell’anno successivo ho fatto più gol di Savoldi, senza polemica per carità. Savoldi era un gran campione, però resta il rammarico, potevamo fare tante cose io e lui, in molti hanno detto che saremmo stati la coppia perfetta. Fa nulla, il calcio è così, è storia passata, in questo sport ci sono momenti buoni e meno buoni.

Della tua vita calcistica mi piace ricordare tre episodi che non scorderò mai e vorrei tu li rivivessi un po’ con me. Il primo è quello dell’unica espulsione della tua carriera contro il Bologna quando tirasti il rigore a Buso, il secondo è la gara di Coppa Uefa col Videoton al San Paolo quando continuasti a giocare con una vistosa fasciatura al capo e infine il rigore con la Lazio che ci tolse due punti fondamentali per lo scudetto.
Allora, ti posso dire, col Bologna avevo fatto già un gol, si vinceva uno a zero e venne fuori un rigore a nostro favore verso la fine della partita. Buso, che era amico mio e con il quale avevo giocato a Bologna insieme, mi chiese dove lo tiravo. Io gli dissi “Guarda che tiro a sinistra, ti tiro a sinistra” e così fu. Lo tirai proprio a sinistra e quando feci gol, gli dissi, sempre col dito, “Ti avevo detto che avrei tirato di là?”. In effetti non avevo specificato a quale sinistra lo avrei tirato, se alla mia o alla sua… Comunque il mio accusatore non fu lui ma Bulgarelli. Si precipitò di corsa credendo che io avessi fatto le corna a Buso, ma non era così. L’arbitro, però, mi diede il cartellino rosso e non credette alla mia versione dei fatti. A fine partita Buso fu bravissimo, disse all’arbitro: “Guardi che Clerici non mi ha fatto le corna, è solo una vittima”. Infatti non presi la squalifica. Col Videoton mi feci male ma non volli uscire, andai fino in fondo, volevo vincere. Non ero uno che si tirava indietro, presi una botta, credevo di farcela e proseguii stringendo i denti, la partita poi finì in pareggio. Con la Lazio, beh, non ti so dire ancora oggi come andai sul pallone. Nel calcio hanno sbagliato Pelè e Maradona, perché non può sbagliare Clerici?

18 maggio 1975, ultima gara di campionato a Varese. Sapevi che era la tua ultima gara col Napoli? Ti avevano già detto che andavi via?
No, in assoluto, quando è finita la partita a Varese sono andato a Napoli, ho firmato di nuovo il contratto, sono tornato tranquillo a casa. Qualche giorno dopo ho ricevuto una telefonata dal Bologna che mi comunicava che ero diventato un loro giocatore. Immediatamente volli parlare con Vinicio e gli dissi che se ero vecchio potevo tranquillamente starmene a casa mia. Stavo benissimo a Napoli, avevo fatto quasi 30 gol ed avevo tutti dalla mia parte. Ancora oggi non ho capito il perché di quella scelta, solo dopo ho saputo che il Bologna avrebbe accettato l’affare solo se c’ero io nella trattativa.

Volevano te…
Sì, l’idea era quella ,“Vendiamo Savoldi ma ci dovete dare anche Clerici”. Se non sbaglio il Napoli aveva preso già Braida per girarlo al Bologna oltre che Rampanti (n.d.r. allora non c’era la volontà del Napoli di cedere Clerici? )

Anche perché eri uno di preferiti di Ferlaino, l’ingegnere ha sempre detto che stravedeva per te…
Ma per avere un giocatore della portata di Savoldi che in quel momento era all’apice della carriera, giocava in Nazionale, era capocannoniere della A, dovevano rinunciare a qualcuno. Purtroppo videro la differenza di età tra me e Savoldi e decisero in tal senso. Rimasi doppiamente male perchè ero andato a casa in Brasile già col contratto del Napoli in tasca. Al di là di questo il Napoli è sempre rimasto nel mio cuore.

Ti rivedi in qualcuno dei giocatori che hanno indossato la maglia azzurra dopo di te o ti o hai notato qualche rassomiglianza con altri giocatori?
Quando sono tornato in Brasile non facevano vedere molte partite di calcio italiano e non ho sempre seguito il Napoli ma ti posso dire che l’attaccante che mi ha entusiasmato di più è stato sicuramente Careca anche se non aveva le mie caratteristiche…

Verrai a Napoli prossimamente?
Beh, ogni tanto ci vengo, quando vengo in Italia ed ho un pò di libertà passo da Napoli. Ci torno perché mi sono trovato bene, ho un sacco di amici, con qualcuno in particolare ci troviamo ancora. A parte Vinicio, mi ritrovo con la famiglia di Lucio Mosca e quella dell’avvocato Landolfo di Grumo Nevano a cui mi lega un forte vincolo di amicizia.

Che calcio è quello di oggi? È tutto business o è ancora un gioco?
Ti posso dire che il calcio di oggi è completamente diverso da quello di una volta, oggi si guarda troppo alla parte fisica e non alla parte tecnica, si corre di più e si curano poco le basi. Io ho una mia teoria, quella che nel calcio vero chi deve correre è il pallone e non il giocatore. Purtroppo bisogna andare avanti così. Quello dei miei tempi era un altro calcio e lo spettacolo era decisamente migliore.

Ed il Napoli di Vinicio lo faceva correre il pallone, era quello il segreto secondo te?
Era il pallone che doveva viaggiare, noi dovevamo impostare in maniera da farlo correre e fargli trovare gli spazi giusti per bucare le difese avversarie.

Come si faceva a far giocare così bene giocatori che non erano famosi tipo La Palma, Orlandini, Rampanti o Braglia?
Io ho una spiegazione tutta mia. Ti dico che anche se eravamo giocatori eravamo amici, questa è la differenza tra il calcio di ieri e quello di oggi, ognuno cercava di dare il massimo, di aiutare l’altro, di impostare, era una squadra in cui tutto facevano il massimo perchè sapevano che vicino a lui stava correndo un amico a cui dovevi dare la palla. A Napoli la domenica sera, indipendentemente se avevamo vinto o perso, si andava fuori con le famiglie, ci trovavamo ad un tavolone con tutta la squadra, c’era quella unione che, quando arrivava la partita, ognuno stringeva i denti per l’altro. Per dirti, l’ultimo dell’anno lo passavamo a casa di Vinicio. Oggi si guarda troppo ai soldi, allora si guardava un po’ ai soldi ma anche alla maglia che mettevi addosso, oggi tutto questo non c’è più.
Davide Morgera
(foto Archivio Morgera)

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