Rivoluzione, rivoluzione.
La stagione che sta volgendo al termine ha avuto come impronta dominante quella del cambiamento. Il modulo, i calciatori, i metodi di allenamento, la gestione degli uomini, la mentalità e l’allenatore sono stati però solo un mezzo per quella che a mio avviso è stata la vera rivoluzione. Una rivoluzione silenziosa. E per quanto sia stata naturale, quasi impercettibile.
Per un attimo ho fatto un lungo passo indietro e mi sono catapultato in un tempo nemmeno troppo lontano, ma che percepisco a mala pena. Poco meno di dodici mesi fa, tifosi, giornalisti ed addetti ai lavori si intrufolavamo nei meandri del calciomercato ponendo attenzione e speranze nell’attesa che arrivassero giocatori noti che dessero garanzie. Faccio nomi a caso: Osvaldo, Parolo o Montolivo. Buoni giocatori sicuramente, ma che adesso nel Napoli non prenderei mai.
Oggi invece le frontiere, le aspettative e le menti si sono allargate. Lo scetticismo è via via evaporato e lo studio si è spostato progressivamente su lidi inesplorati o su obiettivi di tutt’altro livello. Oggi sui social i tifosi disquisiscono ed accendono dibattiti su Gonalons, Arbeloa, Gundogan o Skertl.
Oppure, per sognare, con molta più consapevolezza e naturalezza, si parla di Mascherano, J. Martinez e Di Maria. Extraterrestri sino a qualche tempo fa. E le partite in tv non si guardano per il solo piacere di assistere al bel calcio, ma con interesse, per trovare magari caratteristiche e credenziali che siano adatte al nostro Napoli. Nei giorni scorsi, per esempio, ho guardato l’ennesima partita del Borussia Dortmund per seguire Aubameyang. Ieri non ho solo visto la finale di Europa League, ma mi sono soffermato molto su Garay del Benfica e Moreno del Siviglia. Così come continuerò a fare con l’Atletico Madrid di cui oggi conosco vita, morte e soprattutto i miracoli di Simeone: Mario Suarez, Arda Turan o il portiere belga Courtois. E così sarà con i Mondiali.
Fino a ieri ero ancorato al nostro piccolo confine e mi inorridiva pensare che giocatori come Astori, Antonelli, Biabiany o Matri potessero essere “scartati” e rimpiazzati da Carneade Ghoulam, Carneade Henrique, scommessa Callejon e Carneade Duvan. E mentre lo scrivo mi viene un po’ da sorridere perché la rivoluzione è talmente insita e radicata che forse non riesco nemmeno ad ammetterlo a me stesso.
Meno di dodici mesi or sono abbiamo ingaggiato Mertens. I più esperti se lo ricordavano nell’Utrecht e nel Psv, nostre avversarie in Europa League, ma non ho troppo badato a quei giudizi. Raccontare e conoscere un calciatore avendolo visto per due partite è “disonesto”. Altrimenti uno come Denilson ora avrebbe uno scaffale a casa pieno di palloni d’oro. O uno come Edu Vargas farebbe un altro mestiere. La realtà è che Mertens era un autentico sconosciuto. Ricordo l’estate scorsa discussioni in radio in cui molti giornalisti lo bocciarono adducendo come motivi: non adatto al calcio italiano; inutile perché è il sosia di Insigne; non adatto al modulo di Benitez; non sa difendere; fisicamente inidoneo ecc. ecc.
Oggi Mertens si può considerare una delle nostre stelle, la vera rivelazione del campionato (più di Callejon che bene o male era già più conosciuto). Mentre dietro ci sarà stato uno studio capillare ed approfondito del calciatore che va oltre le mere doti tecniche e fisiche.
E questo discorso lo possiamo ampliare per Henrique, che a leggerne notizie prima del suo arrivo poteva essere tranquillamente il cugino di Edmundo, per Rafael, Ghoulam, lo stesso Reina e per certi versi anche per Mesto e Fernandez di cui sono emerse potenzialità mai viste prima di questo anno.
La rivoluzione sta nell’informarsi, nel guardare oltre, nell’aspettare, nel comprendere che il nostro calcio è vecchio e moribondo e che l’Europa ce lo ha sbattuto sonoramente in faccia, visto che la migliore squadra italiana è stata eliminata non dal Real o dal Bayern, ma da turchi e portoghesi.
La rivoluzione silente e indolore mi ha attraversato per un anno intero, senza che me ne accorgessi pienamente e oggi ne sento gli effetti. E il fatto che ora non mi faccia più terrore è indice che (forse) davvero stiamo diventando grandi. Non solo a parole. Anche perché quando sostavamo sui tetti è un ricordo troppo lontano e antico, ripulito e spolverato ogni giorno solo dalla nostalgia. Mentre invece tutto ciò che sta accadendo è qui e ora.
Ora non ci resta che attendere il compimento definitivo, con più fiducia e meno ansie e paure. Perché, come dice Benitez, “la chiave è nella testa” (più che nel portafoglio). Come questa rivoluzione. La nostra.
Gianluigi Trapani