Intervista al direttore della Biblioteca Nazionale, studioso della città: «È illusorio immaginare che il calcio possa risolvere i problemi di Napoli e delle complesse relazioni sociali all’interno dell’area metropolitana».
Francesco Mercurio, nato a Foggia da una famiglia originaria di Angri, ha studiato Filosofia a Salerno e si è specializzato in storia del Mezzogiorno. Dal 2017 è il direttore della Biblioteca Nazionale di Napoli e quando è arrivato ha subito dichiarato “Sono qui per restare”. I suoi primi obiettivi sono stati dare una “riordinata” alle professionalità interne, stringere un “patto di alleanza” col lettore e, magari, “inseguire qualche sogno”. Ha rilasciato poche interviste in questi due anni, ma quando lo ha fatto ha messo in evidenza di aver capito profondamente la città e di sentirla vicina. Con lui abbiamo parlato di Napoli e del Napoli
Lei, quando arrivò a Napoli, ha parlato della città che reputa la capitale del mezzogiorno e della mancanza di un sentimento identitario se non quello legato al calcio Napoli, ultimamente sembra che questo sentimento non esista più e che non ci sia una identificazione tra i tifosi e la società?
«Ma no. Per quanto riguarda il calcio credo che si tratti solo dell’esternazione di sentimenti di delusione per risultati sperati che non sono ancora arrivati. Secondo me la tifoseria, ma penso la città, ha riposto particolari aspettative nella squadra e nei risultati tangibili che si aspettano da tempo. Sono convinto che con la ripresa del campionato quel sentimento identitario riemergerà nuovamente appena arriveranno i primi risultati positivi».
Ha parlato di Napoli e della divisione tra i quartieri, vomeresi e posillipini e quelli di Scampia o Secondigliano, secondo lei questa divisione si rispecchia anche allo stadio oppure il calcio ha il potere di limare le diversità?
«Magari fosse così semplice. È illusorio immaginare che il calcio possa risolvere i problemi di Napoli e delle complesse relazioni sociali all’interno dell’area metropolitana. Siamo caratterizzati da un individualismo molto marcato, che poi è il sale della società occidentale. Questo individualismo qui da noi spesso, troppo spesso sfocia in una sorta di autoreferenzialità fino a forme impercettibili di apartheid culturale. Ma si tratta di una separazione che caratterizza la città in entrambi i sensi di marcia, rimarcando una sorta di diffidenza estrema fra le classi sociali di questa complessa metropoli.
Mi ha colpito particolarmente la rapina subita da Decibel Bellini e da lui raccontata alla stampa. È paradigmatica di una incomunicabilità sociale fra i quartieri napoletani, quando ti accorgi che quella rapina assume significati che vanno oltre il fatto in sé traumatico per diventare una specie di rivalsa sociale di una parte contro un’altra. Certamente in questo episodio si possono rintracciare ancora i rigurgiti di un certo giustificazionismo che ha segnato gran parte della storia napoletana contemporanea, quando il ricorso a forme di piccola illegalità era uno dei pochi strumenti di contrasto alla povertà dilagante e alla mancanza di lavoro, tanto esaltate dalla letteratura e dal cinema neorealista. Ma da qualche anno quel mondo antico ed incruento che faceva parte del folk napoletano si è sporcato di violenza e di sangue diventando segnali davvero insopportabili.
Il calcio ha la straordinaria possibilità di veicolare messaggi all’intera cittadinanza non solo identitari, ma anche comportamentali. La sua potenza narrativa di una comunità che si stringe intorno ai colori del Napoli è davvero forte. Ma voglio ripetermi. Il calcio non sarà in grado da solo di abbattere queste barriere sociali, anche se certamente è in grado di intervenire sui comportamenti sociali ed avvicinare le diverse anime della città. La sfida di tutti noi è di riuscire ad estendere questi sentimenti identitari dal “Napoli” a Napoli, superando l’appartenenza ad un dato ceto sociale o ad un dato quartiere».
Lei gestisce una grande impresa, perché in effetti la Biblioteca ha dei dipendenti e deve fare i conti con le risorse economiche per amministrare il patrimonio di libri e avviare iniziative culturali e conosce bene le difficoltà di gestire un’azienda, come reputa il lavoro di De Laurentiis come presidente di un’azienda?
«La ringrazio per mettermi sullo stesso piano del presidente De Laurentiis, ma posso assicurarle che abbiamo mission profondamente diverse. D’altra parte il ruolo e la funzione del direttore della Biblioteca Nazionale sono più vicini a quelli di un allenatore che a quelli di un presidente di azienda. La Biblioteca Nazionale ha il compito di tutelare il nostro passato e preservarlo per le future generazioni attraverso la conservazione dei beni librari, della cultura e della memoria di un popolo. Di conseguenza i nostri goal e le nostre partite non ci faranno mai vincere una coppa, ma quando ci è possibile ci permettono di stimolare e irrobustire l’orgoglio della nostra comunità di riferimento. Il “Napoli” invece ha ben altri obiettivi e credo che il suo presidente abbia una grande e legittima voglia di legare il suo nome alla storia calcistica di Napoli con trofei importanti. Ma non lo invidio, perché credo che il suo lavoro sia uno dei più difficili al mondo».
Ha detto che la biblioteca “deve mettere al centro il lettore le cui esigenze devono prevalere su quelle dell’impiegato”, secondo lei, quindi, bisogna attivare un percorso che consenta ai lettori singoli di trasformarsi in una comunità che si identifica con l’istituto.
«Assolutamente sì. La rivoluzione informatica e telematica, la ridondanza informativa della rete richiedono alle biblioteche ruoli e funzioni completamente nuovi per poter coniugare armonicamente il passato (ossia i nostri beni librari), il presente (ossia i nostri utenti) e il futuro (ossia la raccolta e la preservazione per le future generazioni). Questa missione non può essere svolta con la vecchia logica dell’uno (la biblioteca) a tutti (gli utenti), ma con la filosofia del tutti a tutti. La creazione di una community library è di fondamentale importanza perché il cittadino si trasformi da utente dei servizi bibliotecari in protagonista attivo che riceve e fornisce informazioni culturali, che stimola il confronto e formuli domande sempre più pertinenti ai bibliotecari. E se questo protagonismo da individuale diventa collettivo e condiviso, magari anche attraverso i social media, la biblioteca smette di essere il posto di lavoro di un certo numero di impiegati statali per diventare la piazza del sapere, il luogo reale e virtuale d’incontro dei cultori della memoria e dell’identità napoletana, ma anche di coloro che vogliono vivere il proprio presente con qualche impegno culturale e sociale».
È il pubblico che fa la biblioteca? È proprio ciò che i tifosi rimproverano al presidente del Napoli, di non metterli al centro del Napoli e non tener presente costantemente le loro esigenze. Cosa ne pensa?
«No, calma. Non confondiamo i ruoli, per favore. Il cittadino al centro del nostro lavoro è un imperativo, ma riguarda il miglioramento e l’ampliamento dei servizi che offriamo. Ci sono delle volte che non possiamo dare le risposte che l’utenza si aspetta e altre volte ci sono desideri che non dobbiamo “esaudire”. Le faccio l’esempio dei “desiderata”. Spesso capita che un lettore non trova in biblioteca un libro che gli interessa, e ce lo segnala per l’acquisto. Quasi sempre lo compriamo. A volte non lo facciamo perché non ci arriviamo con il budget a disposizione; altre volte non lo compriamo perché non è assolutamente coerente con le nostre raccolte, anche se disponiamo delle risorse finanziarie necessarie. Non lo compriamo perché è un libro così particolare che sappiamo che non sarà mai richiesto in consultazione, e quindi optiamo per libri di altre materie che sappiamo essere più richiesti.
Purtroppo ci capita di dover dire dei no, motivandoli. Il calcio è un argomento totalmente diverso, ma credo che non sfugga alle considerazioni che ho fatto sulle politiche delle collezioni. È probabile che il pubblico voglia il meglio per la squadra e che l’azienda non possa “esaudire” tutti i desideri. Ma qui mi fa avventurare su un terreno che non conosco, su cui non posso che esprimere opinioni che andrebbero ad ingrossare il gran fiume delle fantasie. E credo che in ogni caso valga una regola fondamentale anche per un’azienda particolare come una società calcistica: trovare il giusto equilibro fra quello che si vorrebbe fare, quello che si potrebbe fare e quello che si dovrebbe fare».