ilNapolista

Nino D’Angelo: «Non sono stato mai così felice come da povero. Non dico che è meglio essere poveri»

A Oggi: «Chi ha visto la mamma umiliarsi, con quelli che si prendono i mobili perché non può pagare la pigione, a quello non lo ferma nessuno»

Nino D’Angelo: «Non sono stato mai così felice come da povero. Non dico che è meglio essere poveri»
Mc Roma 16/10/2022 - Festa del Cinema di Roma / foto Mario Cartelli/Image nella foto: Nino D'Angelo

Nino D’Angelo: «Non sono stato mai così felice come da povero. Non dico che è meglio essere poveri»

Oggi intervista il caschetto più famoso d’Italia, Nino D’angelo che racconta la sua storia

«Ero il più grande, papà non credeva nel talento. Diceva: non puoi fare questo mestiere perché io non ti posso raccomandare».

Paradossi: non fosse stato Nino D’Angelo?

«Giocavo bene a pallone, ma ero fisicamente fragile. Probabilmente avrei fatto il venditore di scarpe, andavo nei mercati con zio Gennaro. Non sono stato mai così felice come da povero».

Mi sembra una frase a effetto.

«Se voglio io scendo e compro l’auto che desidero, ma l’emozione di quando papà mi ha comprato la prima bicicletta non l’avrò mai più. Per chi non ha niente il poco vale assai. Non sto dicendo che è meglio essere poveri, non mi fraintenda».

Fino a quando è stato povero?

«Ora sono ricco, ma vivo da povero. Chi ha visto la mamma umiliarsi, con quelli che si prendono i mobili perché non può pagare la pigione, ecco a chillo là non lo ferma nessuno. Oggi tutti hanno i telefonini e le televisioni in casa, mamma pagava la vicina per farci guardare i film western, li chiamavamo sceriffi. Non me ne frega niente del materialismo, non ho neppure mai comprato un pianoforte».

Nino D’Angelo e l’educazione dei figli

E i suoi due figli, come li ha educati?

«Loro sono cresciuti borghesi, non come me. Sono andato via da Casoria quando mi hanno sparato in casa. Mi sono trasferito a Roma, sulla Cassia. Per paura li ho pure iscritti in scuole a pagamento».

Dopo ci sono stati altri avvertimenti?

Nino D’Angelo: «No, all’epoca credevo di essere amato da tutti, buoni e cattivi. Devo ringraziare mia moglie, Annamaria: “Noi ce ne andiamo. Se tu vuoi, vieni”».

A Napoli si diceva che la città tiene tre cose belle: Maradona, Nino D’Angelo e le sfogliatelle.

«Erano gli anni Ottanta. Il team di Maradona voleva denunciarmi: chi è questo? Gli hanno risposto: questo qua è come Maradona. Diego mi ha voluto conoscere e siamo diventati amici, ci univa il fatto che lui non poteva uscire mai, io non potevo uscire mai».

Cioè?

Nino D’Angelo: «Eravamo troppo conosciuti, io col caschetto, Diego era Diego. Andavamo a casa di Peppe Bruscolotti, il capitano del Napoli dell’epoca. Parlavamo di calcio e di musica, di quello di cui di solito parlano gli amici. A Diego piaceva lo spaghetto aglio e olio che gli faceva la moglie di Peppe. È stato un privilegio».

Adesso tutto è cambiato: Geolier e, soprattutto, Liberato sono portati in palmo di mano. È stato un capostipite?

«I cazzotti che potevano prendere loro li ho presi tutti io. Nel loro Dna in qualche modo ci sono io, le loro mamme ascoltavano me. E comunque c’è stato pure Pino Daniele».

ilnapolista © riproduzione riservata