Ha perso tanto, vinto poco. Non ha odiato il tennis, come Agassi. L’ha disprezzato silenziosamente
Per rispondere subito all’algoritmo di Google: una che ha tirato, tutto, fortissimo, sempre. Ecco chi è Camila Giorgi. Una che si è ritirata in contumacia, in silenzio. Non s’è iscritta a Roma, e nemmeno al Roland Garros. Ha semplicemente smesso di tirare, e basta. Sergio Palmieri, storico direttore del torneo di Roma, diceva che “Camila è un corpo estraneo al tennis. Non ha amiche nel circuito. Gioca, fa la doccia, e scappa via col padre”. Il vero obiettivo di quella intervista era, appunto, tanto padre. L’altro Sergio, “el loco” Sergio. Inviso alla federazione, che non è mai riuscito a sottrargli la figlia. Un padre di quelli ingombranti come solo il tennis ne produce, buoni o cattivi, per lo più asfissianti. E infatti dopo appena dieci righe questo pezzo è già deragliato verso il genitore: ogni volta la stessa storia.
Invece no, questa dismissione troppo sobria per essere vera, merita un addio centrato. Senza distrazioni: le foto in lingerie, il rapporto edipico col suddetto papà ex calciatore ex boxeur, la mamma stilista dei suoi completini, la sorella morta a Parigi nel 2011, il vaccino fatto-forse sì-forse no. Camila è stata Camila a dispetto di tutto. A dispetto, soprattutto, dello stesso sport che poteva dominare e che invece ha sorvolato disprezzandolo. Sì, da Open di Agassi in poi è diventato un cliché pure questo… Ma lei ha l’odiato zitta zitta, come fa solo chi sa odiare bene.
Due anni fa aveva già 30 anni e il tennis avrebbe dovuto capirlo almeno dieci anni prima: il gioco mentale, la scacchistica della tattica, l’adesione quasi protesica alla partita, al suo svolgimento in funzione e per conto dell’avversario. Due anni fa disse: “E’ inutile che me lo chiediate ogni volta, non ho un piano B e non lo avrò mai, questo è il mio tennis, è inutile che guardi come gioca una che ha un tennis opposto rispetto al mio. Non mi serve vedere come gioca una persona con un gioco difensivo. Al massimo posso vedere i video dei miei idoli, di Agassi, di Sampras. Posso guardare come serve Del Potro, che ha il miglior servizio del circuito, posso guardare come risponde Djokovic”.
Camila – lo sanno tutti – ha perso. Ha vinto cioè appena 4 tornei (di cui un Masters 1000 nel 2021) in miserabile quota-parte di ciò che avrebbe potuto portare a casa se avesse pensato, almeno una tantum, a ciò che accadeva oltre la rete. Invece ha perseverato, senza indugiare su alcuna palla, a riformulare il concetto stesso di power-tennis. Che è un non-luogo a procedere: non pensare, spara; quanto? Tutto, anzi di più. E se sbagli? Sbaglia ancora, più forte. Che sia una riga o il telone, in fondo che importa. Avrebbe potuto fondare il partito dei tennisti scemi, avremmo forse governato il Paese.
Camila è stata un monolite. Ha pianto pochissimo. Ha sorriso quasi mai. E’ stata incongruente, ma ha tenuto su l’impalcatura traballante con una ostinazione quasi letteraria. Durante una premiazione nel 2018 (era numero 26 del mondo) come miglior tennista italiana ai Supertennis Awards, la conduttrice le chiede il momento più bello della stagione. Lei risponde: “La fine”.
Un’altra volta estese il concetto: “Mi dispiace aver perso ma non succede nulla. Per me il tennis è un lavoro, non è la vita. Ogni giorno vado a lavorare: preparo il borsone e vado a lavorare. In futuro farò altri lavori, la mia vita è fuori”. Di fronte aveva una platea di giornalisti che nel frattempo scrivevano del filo di rossetto su quel fisico scolpito, della maceratese apolide, del suo Instagram sexy. Per cui Camila non poteva far altro che tirare, forte, tutto, sempre. Questa volta s’è chiama “out” da sola.