Al Corsera: «Ci sono passato anche io, vengono lasciate le persone con un’etichetta addosso. Sono diventato portiere grazie a N’Kono del Camerun».
In un’intervista al Corriere della Sera, l’ex portiere e ora capo delegazione della Nazionale Gigi Buffon ha parlato della sua infanzia e la sua carriera calcistica.
La sua prima volta su un campo da calcio vero?
Buffon: «Avevo 6 anni, giocavo in una società di Spezia, il Canaletto, perché mio padre allenava la prima squadra. Giocai lì per 2-3 anni, da centrocampista o libero. L’emozione di quando mi diedero il sacco con la tuta fu incredibile. Passavo giornate intere a sfogliare gli album delle figurine, studiavo la storia dei giocatori, delle squadre… l’idea di avere anche io una divisa e un borsone, di far parte di un gruppo, mi emozionava: ero orgoglioso come se la maglia che indossavo fosse stata quella del Real Madrid. Poi mio padre andò via e mi spostai alla Perticata, a Carrara, che era affiliata all’Inter. Mi divertivo tanto e avevo buoni risultati, facevo parte della rappresentativa provinciale e regionale. Sono diventato portiere dal 1990; al Mondiale venni letteralmente rapito dal Camerun, in porta c’era Thomas N’Kono che aveva un modo di giocare e di interpretare le partite folkloristico, efficace, coraggioso. Faceva uscite di pugno respingendo per 30-40 metri, era un artista. Rimasi folgorato. Alla ripresa del campionato, decisi di mettermi tra i pali. Andai al Bonascola, cambiai perché alla Perticata avevano già un portiere, non gli interessavo in quel ruolo».
Fu un’ascesa travolgente.
«Comprato dal Parma, dopo 4 anni esordii in A».
Quanto è importante fare sport per un ragazzo?
«È fondamentale per socializzare, per imparare a competere prendendo atto che qualcuno può essere più forte di te. E, se lo fai con la serietà giusta, ti tiene lontano da strade pericolose. Mi sono accorto che le persone che hanno fatto sport accettano anche le “sconfitte”, non hanno paura di misurarsi con gli altri».
Si assiste spesso – specie sui campi di periferia – a scontri tra ultrà o sul terreno di gioco: che pensa?
«Certe cose nel calcio sono sempre successe e si ripetono, mi spiace molto. Accadono solo in questo sport, quando vado a vedere Leopoldo a basket non ci sono conflitti. Invece allo stadio sembra di stare in un porto franco in cui ognuno si sente in diritto di poter liberare le proprie pulsioni tribali o animalesche».
Cosa ha rappresentato per lei il calcio?
Buffon: «Ho avuto la fortuna e la capacità di avere come priorità l’emozionare e l’emozionarmi. Restare alla Juve in serie B, a 28 anni e da campione del mondo, sembrava da folli, ma era una scelta che mi rappresentava, il riflesso di quello in cui credevo da bimbo. I soldi invece sono sempre stati l’ultima cosa, un “non tema”».
Era con Tonali e Zaniolo, quando le forze dell’ordine sono arrivate a Coverciano. Perché due campioni hanno ceduto alla tentazione delle scommesse?
«È un tema molto delicato. Credo sia sbagliato criminalizzare e non fare dei distinguo. Scommettere di per sé non è reato, gli stadi stessi e le trasmissioni sportive sono pieni di pubblicità di App di questo genere e lo Stato incentiva il gioco. Se invece un calciatore scommette sul calcio va incontro a punizioni che giustamente devono essere inflitte; ma se scommette sulla pallavolo, sul basket, sulle corse dei cani…non sta commettendo alcun reato. E la cosa peggiora quando si parla di ludopatia, anche qui non centrando l’obiettivo: la ludopatia non è un problema di quanto spendi, ma del tempo che dedichi a questa attività. E questo dobbiamo spiegarlo ai ragazzi. Ci sono passato anche io venendo infangato senza aver commesso nulla: quando le cose si chiariscono, ci si dimentica di spiegare e chiedere scusa e si lasciano le persone con un’etichetta addosso. Lo trovo profondamente sbagliato».