E’ morto il giorno di Natale del 2020, a 44 anni. Per un’intossicazione acuta da alcol e farmaci, si diceva. Invece ora l’Università di Boston dice che il motivo era un altro
Scott Vermillion era un calciatore della M.L.S., il campionato americano. E’ morto il giorno di Natale del 2020, a 44 anni. Per un’intossicazione acuta da alcol e farmaci, a conclusione di una vita travagliata: dopo una solida carriera da ottimo giocatore ha trascorso l’ultimo decennio della sua vita lottando con l’abuso di sostanze e comportamenti progressivamente irregolari. Alla fine dell’anno scorso, i medici della Boston University hanno offerto un’altra spiegazione alla sua morte: dopo aver esaminato il cervello di Vermillion, hanno detto alla sua famiglia che soffriva di encefalopatia traumatica cronica, detta anche CTE, una malattia degenerativa del cervello legata a sintomi come perdita di memoria, depressione e comportamento aggressivo o impulsivo. Una patologia che si sviluppa anche per colpa dei ripetuti traumi alla testa cui sono sottoposti i calciatori come atleti di altre discipline.
Vermillion è ufficialmente il primo calciatore americano con un caso accertato di CTE. Ne scrive il New York Times, perché il problema della salute dei professionisti di sport da collisione all’estero è sempre più dibattuto. In Italia, figurarsi, non se ne parla nemmeno per caso.
“Il calcio è chiaramente un rischio per C.T.E., non tanto quanto il football, ma è chiaramente un rischio”, ha affermato la dottoressa Ann McKee, direttrice del C.T.E. Center dell’Università di Boston. Un neuropatologo, McKee, ha riscontrato la malattia in centinaia di atleti, incluso Vermillion.
L’anno scorso, campionati e tornei di tutto il mondo, incluso la MLS, hanno iniziato a sperimentare le sostituzioni per commozione cerebrale, che garantiscono alle squadre cambi aggiuntivi. Ma non è cambiato molto. Sono cambiate le linee guida sui colpi di testa a livello giovanile.