Oggi si fa carriera arbitrando le squadre più forti, così si diventa internazionale, ed è fisiologico essere più clementi con i top club. Col sorteggio integrale non sarebbe così
Da diversi decenni le polemiche arbitrali sono parte fondante del calcio italiano: nate negli anni Sessanta – quando attraverso le immagini della neonata invenzione della moviola, tutti gli appassionati poterono iniziare a farsi una propria idea sugli episodi controversi – sono rimaste una presenza quasi costante nelle discussioni calcistiche del nostro Paese.
Chiaramente nulla può cancellare il sacrosanto e inevitabile errore umano dell’arbitro e nemmeno si può lavorare più di tanto in tal senso, se non magari migliorando la qualità media della nostra classe arbitrale. Tuttavia, a torto o a ragione, il clima calcistico italiano non è avvelenato in sé dall’esistenza di errori dei fischietti, quanto piuttosto dal sospetto di un inconscio condizionamento esterno delle direzioni arbitrali.
È imperdonabile che la grande maggioranza delle polemiche nasca da alcune situazioni in realtà evitabili, che nemmeno la grande occasione offerta dal vergognoso scandalo di Calciopoli nel 2006 ha permesso di eliminare appieno.
Oggi chi fa l’arbitro è un professionista molto ben pagato: quasi nessun appartenente all’Aia guadagna maggiormente con l’eventuale lavoro svolto nella vita di tutti i giorni che, piuttosto, girando gli stadi di Italia e Europa. Ciascun direttore di gara è consapevole di poter migliorare ulteriormente la propria carriera solo guadagnando prima e mantenendo poi la qualifica di internazionale, che permette di arbitrare le gare delle coppe europee e delle rappresentative nazionali. Il problema che mina la serenità di chi fa questa professione è che questo status sia raggiungibile solo dirigendo le partite delle squadre più forti e/o maggiormente potenti della Serie A, alle quali si arriva tramite le assegnazioni dei designatori, che quasi sempre tengono conto di impliciti veti delle società, temporanei o meno che siano. In una tale situazione è evidente e inevitabile che la maggioranza degli arbitri nel dubbio su cosa decidere in frazioni di secondo riguardo a un episodio controverso – come ad esempio l’assegnazione di un calcio di rigore – inconsciamente preferisca fischiare a favore della squadra che in maniera minore potrebbe ostacolare il prosieguo ad alti livelli della propria carriera. Inutile negarlo, tantomeno scandalizzarsi: è fisiologico che per qualsiasi arbitro una cosa è se la Juventus chiede di non farsi più dirigere una sua partita a seguito di un conclamato torto subito, un’altra lo è, con tutto il rispetto, se ad aver protestato per la stessa ragione è stata la Salernitana.
Il Var è stato introdotto per diminuire gli errori degli arbitri e sicuramente è stato in tal senso una novità positiva, capace di diminuire le sviste e rasserenare in parte gli animi in campo e sugli spalti. Ma sin quando ci sarà un arbitro che – semplicemente perché certo di quel che ha fischiato – potrà rifiutarsi di consultarlo, il sospetto sulla sua inconscia malafede nella decisione di non farsi aiutare tra gli appassionati resterà. Cambiare protocollo allungherebbe senz’altro gli attuali tempi di gioco, ma questo sembra essere decisamente il male minore rispetto al clima sempre più avvelenato respirato in questi anni. Come accade già in tantissimi altri sport iper professionistici (dal 2019 anche la NBA si è adeguata in tal senso) è ora di concedere ai protagonisti in campo la facoltà di rivolgersi direttamente al supporto della tecnologia, quando una decisione arbitrale non li convince. Ciascuna squadra dovrebbe avere a disposizione per ogni partita un paio di chiamate del Var, magari consultato da una commissione indipendente di ex giocatori, come proposto qualche tempo fa dal ds del Napoli, Giuntoli.Chiaramente ci sono tante situazioni di gioco sulle quali nemmeno la tecnologia riesce a risolvere con un responso oggettivo i dubbi, ma in tutta evidenza così facendo diminuirebbero considerevolmente le polemiche.
Le due soluzioni proposte, nonostante siano sensate, difficilmente a breve verranno però applicate in Italia: farebbero perdere sin troppo potere a un settore arbitrale arrogante e autoreferenziale, che vive politicamente dell’attuale ruolo decisivo a sua disposizione con il regolamento odierno. Facile immaginare l’opposizione dell’Aia con motivazioni fin troppo somiglianti a scuse, relative soprattutto all’ulteriore spezzettarsi delle partite.
Senza contare che c’è anche chi, molto potente, temporaneamente si avvantaggia dello status quo e non ha alcun interesse a cambiare realmente le cose: un errore strategico che si trasformerà alla lunga in un autogol anche per chi ora vince e guadagna maggiormente.
Il calcio, soprattutto quello italiano, ha bisogno con urgenza di rinnovarsi con coraggio, anche a costo di modificarsi radicalmente: i numeri costantemente decrescenti degli abbonamenti tv e delle presenze allo stadio testimoniano come ci sia sempre un maggiore disinteresse verso la Serie A, sempre più malato terminale. Uno dei principali motivi di questa crisi è la mancanza di quella che dovrebbe essere una componente scontata, la credibilità della piena regolarità del campionato: tutti, anche chi vince e adesso ha il potere, dovrebbero avere interesse nel compiere decisioni anche drastiche per far sì che la stalla non sia chiusa quando i buoi siano già tutti scappati.