A La Stampa: «La strada è un’altra, nemmeno inginocchiarsi serve. Club e federazioni devono essere più aggressivi. Il razzismo è una questione più grande dei giocatori»
La Stampa intervista Marcel Desailly. Ha giocato in Francia, in Italia, in Inghilterra e in Qatar, dove ha chiuso la carriera. Campione del mondo nel 1998, ha vinto 2 scudetti con il Milan. Il tema dell’intervista è il razzismo. Desailly non è d’accordo con Thuram, che dice che per combattere il razzismo «i calciatori bianchi dovrebbero uscire dal campo».
«Perché? Non capisco. Il razzismo è una questione più grande dei giocatori. Oggi le amministrazioni, le federazioni, i club devono essere più aggressivi. Non tocca a chi sta in campo, tocca a chi ormai ha tutti i mezzi tecnologici per controllare il pubblico, si può trovare e punire il responsabile di ogni atto incivile».
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«Iniziamo a farlo davvero. A educare gli arbitri a reazioni pronte e ferme. Chiediamoci: la procedura in atto ora è la più dura ed efficace possibile? Archiviamo gli alibi, che gli idioti siano 100, 15 o 1 è lo stesso. Trovare e punire sempre. Se tutto il sistema, nelle parole e nelle azioni, stabilisce che il razzismo, in uno stadio, nel 2021, non ci può stare chi non è d’accordo cambia aria. Lo sport è l’opposto, è integrazione».
Bisogna mostrare fermezza.
«Mostriamo al mondo che non c’è dubbio o tentennamento. Anche inginocchiarsi non è più un gesto forte, è il passato e, ancora, mette tutta l’attenzione sul giocatore ma è il movimento che deve essere compatto contro il razzismo».
I giocatori non possono fare nulla?
«Il mondo del pallone, nella sua totalità, non si muove ancora come dovrebbe. Vediamo se si riesce a mettere di più in questa lotta. Serve uno sforzo. Se poi non succede, perché non dovrebbero essere i neri i primi a lasciare il campo? Per colpire il business. Se ce ne andiamo si ferma il gioco. Eppure non sarebbe un grande messaggio arrivare fino a lì. Significherebbe che non si è fatto quel che si doveva».