Bastava una elementare previsione del cash flow, invece fu montata la leggenda delle magliette. In Italia il capitalismo è più attento alla politica che ai bilanci. E il giornalismo ci mette del suo
C’è stato un refrain nel mare di articoli sulla partenza di Cristiano Ronaldo dalla Juventus. Le perdite finanziarie “non erano prevedibili,” Ronaldo è stata “una scommessa persa,” un investimento che “non ha dato i suoi frutti.” Il tutto costruito per sollevare Andrea Agnelli e il management della Juventus da ogni responsabilità, come se il club fosse un’azienda biotech che avesse scommesso su un farmaco innovativo, e poi i clinical trials avessero certificato che il farmaco non funziona.
In realtà, dati finanziari alla mano, il management della Juve non poteva non sapere che sarebbe andato incontro ad un investimento in perdita. Era chiaro fin dall’inizio – e qualche isolato commentatore lo aveva anche detto – che Ronaldo non sarebbe stato un investimento sostenibile. Ma la stampa (con la s minuscola, anche se si può includere quella con la S maiuscola) italiana aveva incredibilmente silenziato le critiche all’epoca dell’acquisto. E per anni, i titoli dei giornali hanno continuato ad alimentare la leggenda dell’acquisto che “si paga da solo.”
Iniziamo con un principio facile facile. Gli investimenti, per avere successo, devono a) produrre una somma di cash flow superiore – nel valore presente, cioè scontato al tasso d’interesse che corrisponde al costo del capitale per la società che investe – al costo dell’investimento o b) avere come oggetto un asset che – pur non producendo cash flow – potenzialmente possa apprezzarsi in futuro, così da essere venduto ad un valore futuro superiore, al netto dello sconto, al prezzo di acquisto. Avendo Ronaldo all’epoca dell’acquisto 33 anni, l’aumento di valore dell’asset – tanto per essere chiari, Higuain comprato a 40 e venduto a 90 – era già fuori discussione. Rimaneva il cash flow, potenzialmente sotto forma di nuove entrate aggiuntive, al netto delle tasse.
Dal punto di vista finanziario Ronaldo costava alla Juve 60 milioni lordi l’anno. Eliminiamo per un attimo dall’equazione la storia della plusvalenza, che è irrilevante per il cash flow. La domanda che Agnelli – o chi per lui – avrebbe dovuto farsi era – può Ronaldo generare 60 milioni di ricavi aggiuntivi per la Juventus? Tra l’altro, nel 2017, l’ultimo anno senza Ronaldo, la Juve aveva appena fortemente incrementato i ricavi grazie alla finale di Champions, generando 42 milioni di cash flow da net income nell’ambito delle operating activities. Con Ronaldo, diventa negativo (-19 nel 2018, -39 nel 2019). Ma soprattutto, la voce più importante – il Free Cash Flow che rappresenta il cash rimasto in cassa per pagare dividendi e creditori – positivo nel 2017 (+54.4), diventa negativo nel 2018. Non è ancora, da allora, tornato positivo.
Poteva la Juventus saperlo? Quali sono le fonti di ricavi per la Juve, al di là dei contratti sui diritti televisivi che però non possono essere rinegoziati? Principalmente lo stadio e il merchandising. Il primo non è espandibile, quindi quei ricavi hanno un tetto. Lo Juventus stadium è sempre stato pieno anche prima di Ronaldo, quindi quei 60 milioni da lì non sarebbero arrivati. Rimane il merchandising. La domanda è quante magliette di Ronaldo la Juventus avrebbe dovuto vendere – considerato che alla società va solo una quota dei ricavi – per ripagare quei 60 milioni di cash flow negativo per ciascun anno di contratto di Ronaldo. Qui siamo alla speculazione pura, perché non sappiamo i termini del contratto Adidas-Juve. Ma resta difficile pensare che un manager accorto potesse pensare di rientrare dell’investimento vendendo magliette. In ultimo, la stampa ha spesso menzionato potenziali nuovi mercati cui la Juve si sarebbe aperta grazie all’appeal di Ronaldo come giocatore. Ma senza l’appeal del campionato italiano in generale, questi mercati – prevedibilmente – non hanno fatto la differenza nel generare ricavi sostanziali.
Quest’analisi è stata fatta su dati accessibili al pubblico – basta un abbonamento a Bloomberg. La conclusione scontata è che un manager attento alla Juventus non avrebbe mai autorizzato la spesa. Se ne deduce che Agnelli non è un manager serio, o non ascolta i manager seri che lo circondano, se ce ne sono alla Juventus. Il sospetto è che sia, come tanti capitalisti italiani, più attento alla politica e ai rapporti con i politici – nel mondo del calcio e al di fuori di esso – che alla gestione attenta di una società che fattura 500 milioni.
La chiosa è: il giornalismo italiano avrebbe dovuto esporre la situazione, spiegarla al pubblico, magari criticando la proprietà Juventina? Qualsiasi giornalista finanziario avrebbe potuto guardare i dati – magari nel 2019 o 2020 – e giungere alle stesse conclusioni a cui siamo giunti noi, che non siamo professionisti, e gli investitori della Juventus che hanno premiato la mossa della vendita di Ronaldo. Sfortunatamente, con poche eccezioni, il giornalismo italiano – già profondamente mediocre in materia finanziaria, basta ascoltare le domande stupide e totalmente scentrate che i nostri reporter fanno alle conferenze stampa della BCE – è legato a doppio filo alla politica, e ai grandi gruppi industriali. La famiglia Agnelli è addirittura proprietaria di due giornali importanti, e la Confindustria controlla il quotidiano finanziario per eccellenza.
In un circolo perverso, Andrea Agnelli e la società hanno convinto i giornalisti di aver fatto un capolavoro, e i titoli dei giornali trionfanti hanno a loro volta rafforzato Andrea Agnelli nella convinzione di aver fatto un capolavoro. E invece la Juventus quattro anni dopo è più povera, non più vincente, e il calcio italiano continua la sua fase di decadenza, senza che Ronaldo abbia fatto la benché minima differenza.