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Il Guardian: «Il mercato non riconosce i campioni come esseri umani, chi se ne frega se sono felici o no?»

“Lo sport inteso come contenuto, come prodotto, re-immagina la nostra relazione con il campione come una transazione di consumo: devono intrattenerci, e basta”

Il Guardian: «Il mercato non riconosce i campioni come esseri umani, chi se ne frega se sono felici o no?»
archivio Image / Sport / Tennis / Naomi Osaka / foto Imago/Image Sport

Osaka, ma anche Sloane Stephens. O Simone Biles. E Lizzo, Lorde, Taylor Swift e Billie Eilish. E chiunque altro – quasi sempre donne, magari di colore – diventi un idolo pop. Vittime dello stress ma solo come risultante d’una pressione, quella delle richieste, degli abusi, dei giudizi della gente. Essere campioni oggi significa sottostare ad un costante ricatto morale e commerciale, dal quale è complicato non uscire a pezzi.

Lo scrive in un editoriale sul Guardian Jonathan Liew, che usa le vicende del tennis e gli sfoghi della campionessa per farne un discorso più generale:

Il semplice fatto di esistere nella sfera pubblica, per quanto fugace, significa essere cooptato in un rumore incessante di giudizio istantaneo, riflessivo e spesso performativo. Pensate al trattamento ridicolo riservato a Simone Biles quando si è ritirata da varie gare alle Olimpiadi di Tokyo. È stata accusata di essere una che molla, di debolezza mentale, di aver sostanzialmente violato il contratto che tutti gli attori inconsapevolmente sottoscrivono quando appaiono sui nostri schermi: si presentano, ci intrattengono e poi si perdono”.

Questo, scrive Liew, “è un fenomeno che attraversa lo sport, la cultura popolare, che riguarda tutte le donne che abbiano la temerarietà di occupare lo spazio”.

Perché è anche colpa questa “del modo in cui siamo incoraggiati a consumare l’intrattenimento. Il confezionamento dell’arte o dello sport come contenuto, come prodotto da mercificare e vendere, ha implicazioni ben oltre il risultato finale. In un certo senso, re-immagina la nostra relazione con l’esecutore come una transazione di consumo, sottopone i suoi sentimenti e i suoi capricci agli istinti più selvaggi del mercato in generale. Fama e successo, riconoscimenti e ricchezza, aspirazione e attenzione, sono confusi al punto che non possiamo più distinguerli in modo significativo”.

“Questo non è semplicemente un problema dei media, o un problema dei social media. Gli stessi elementi costitutivi della nostra cultura non ci fanno riconoscere i vip come esseri umani, perché non è questa la funzione che abbiamo assegnato loro”.

“Allo stesso modo in cui gli atleti di colore sono costretti a navigare in un estenuante campo minato della malafede (Marcus Rashford che si mette in ginocchio è un cavallo di Troia per il marxismo!), il sospetto istituzionale sulle atlete assume molte forme ma scaturisce da un impulso fondamentale: questa persona non può essere chi dice di essere”.

E Liew aggiunge che il confronto con la precedente generazione di superstar non aiuta:

I vari “Serena Williams, Cristiano Ronaldo, Beyoncé. Erano implacabili e infallibili, intoccabili e per estensione inalterabili. Le avversità erano qualcosa da battere. La tragedia era qualcosa da superare. Che questo fosse solo un cartone animato irrimediabilmente deformato della realtà era irrilevante. Quando abbiamo iniziato a santificare i superumani, cosa pensavamo che sarebbe successo agli umani?”

“Questo è l’orribile frastuono in cui sono nate le giovani star di oggi, e le migliaia minori che non possono permettersi una lunga pausa nella carriera o uno psicologo a tempo pieno. Vogliamo che giochino. Vogliamo che vincano. Vogliamo che ci rendano felici. E se non sono felici loro stessi? Beh, sono famosi. Certo che sono felici”.

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