La demolizione sistematica dello straniero che viene deriso e accusato di lesa italianità. Come con Luis Enrique e Benitez. Il calcio italiano perde ma non vuole cambiare
La scorsa settimana, in occasione del 75esimo compleanno, la Gazzetta dello Sport ha intervistato Arrigo Sacchi che, tra i vari, ha ricordato un aneddoto particolarmente indicativo a proposito di Helenio Herrera passato alla storia come il re del catenaccio e contropiede.
A 14 anni ero all’Appiani per Padova-Inter, novembre ’60. Uno spettatore da dietro mi tirò giù il berretto sugli occhi. Primo anno del Mago. Era partito fortissimo: 5 gol all’Atalanta e al Vicenza, 6 all’Udinese… Attaccava sempre, come in Spagna. Attaccò anche a Padova dopo essere passato in vantaggio. Il Padova di Rocco passò la metà campo 5 volte, segnò 2 gol e prese un palo. Il giorno dopo Brera e colleghi gli tolsero la pelle: sprovveduto, minus habens tattico… “Ah sì? Questo volete? E io ve lo do”.
E così nacque il calcio all’italiana di quella che è passata alla storia come la grande Inter. Il racconto conserva la sua disarmante attualità. Persino oggi, nel 2021 anno in cui il calcio italiano si lecca le ferite dopo l’ennesima scorpacciata di figuracce rimediate in Europa. Ed essere rimasto a bocca aperta a guardare Bayern-Psg dopo le partite al rallentatore Inter-Sassuolo e Juventus-Napoli.
Il claim “il campionato più bello del mondo” è stato sostituito dal “campionato meno allenante del mondo” (copyright Fabio Capello) e ora anche da “questo è un campionato per vecchi” dove in testa alla classifica marcatori c’è un over 35 – Cristiano Ronaldo – e un 39enne (Ibrahimovic) viaggia alla media di un gol a partita.
Mentre in Europa i quarti di finale di Champions vengono decisi da calciatori under 22 come Foden, Haaland, Mbappé, Vinicius, Mason Mount, da noi il 18enne Calafiori è costretto in tv a fare un appello che somiglia quasi a quello per un rapimento: «All’estero alla mia età giocano in prima squadra e sono in Nazionale: fateci giocare». Appello che in studio hanno commentato dicendo: «Beh stasera hai giocato», come a dire sta’ al tuo posto, già ti è andata bene che Spinazzola si è infortunato.
Anche a dispetto di risultati sconfortanti, il calcio italiano non ci pensa nemmeno a sottrarsi al vizio capitale della superbia. L’impalcatura tolemaica del nostro football non viene minimamente scalfita né dalle sconfitte né da un Copernico qualsiasi che viene a dirci che no, non è il sole a girare attorno alla terra. Che forse non funzionano più i nostri metodi di allenamento anni Settanta, improntati al concetto di sacrificio e spremitura come se stessimo parlando di lavori forzati e non di muscoli che devono essere allenati a scatti brevi ma intensi. E non si cambia idea nemmeno quando è evidente anche a un bambino di tre anni che all’estero si gioca a un’altra intensità, a un’altra velocità.
L’impalcatura culturale del calcio italiano è di tipo sovranista. Si guarda dall’alto al basso, al limite della derisione, chi è straniero, chi è portatore di una visione altra delle cose del football. Si può essere stranieri anche da italiani. Un atteggiamento che sfocia nel boicottaggio manifesto, nell’ostilità, quando si tratta di allenatori che sbarcano in Italia senza genuflettersi all’ortodossia locale. Senza rispettarne gli usi e costumi.
I casi più eclatanti sono certamente Luis Enrique alla Roma e Rafa Benitez prima all’Inter e soprattutto poi al Napoli. Travolse anche Frank de Boer che però ha fallito anche altrove. E avrebbe colpito Rangnick se fosse arrivato al Milan.
L’ultima vittima del sovranismo calcistico è Paulo Fonseca. Il portoghese che da un anno mezzo allena la Roma l’unica squadra italiana ancora in lizza nelle coppe europee. Ieri sera ha persino battuto l’Ajax in trasferta in Europa League. Fonseca è pressoché considerato un incapace, giudizio cui va aggiunta l’aggravante di essere una persona perbene. Perché in questo contesto è un’aggravante.
Per Fonseca è stato srotolato il repertorio classico: la demolizione dello straniero attraverso un processo che mira a colpirlo nelle fondamenta, che punta a screditare la sua formazione professionale attraverso lo sgretolamento sistematico e derisorio dei suoi principi.
Ci sono alcuni passaggi obbligati del sovranismo calcistico: non fa allenare come si deve i giocatori, non li mette sotto torchio, quindi i calciatori si ribellano a metodi giudicati troppo blandi (loro che sono unanimemente considerati scansafatiche) e in alcuni casi sono costretti a provvedere da sé con esercizi supplementari. La squadra non lo segue più, in campo non corre. E poi, magari, il classico confronto con i giocatori che lo mandano a quel paese.
Lui ieri sera si è indignato, si è spinto addirittura a dire che per lui chi mette in giro simili bugie non è un valido professionista. Beata ingenuità. Non sa che è tutto scritto nel manuale dei giovani sovranisti.
La stagione di Luis Enrique alla Roma – 2011-12 – fu una critica continua, un rumore di fondo senza sosta. Cominciato ovviamente in ritiro dove destarono scandalo i metodi “leggeri”. Era un marziano Luis Enrique al punto da pensare di poter portare a Roma come secondo l’ex laziale De La Pena: roba da Lol, avrebbe sbaragliato la concorrenza. Il suo destino è stato segnato da subito: uno che perde il derby in rimonta in pieno recupero, non ha speranze. Lui perse anche quello di ritorno, figuriamoci.
Resta memorabile lo striscione: “S’è liberato er posto ar Barcellona”. I tifosi giallorossi lo deridevano. Lo ritenevano un incapace. Poi finì che il Barcellona lo chiamò davvero e lui vinse pure il triplete. Ma la vita reale non ha aperto alcun processo, mai alcun dubbio si è insinuato nella spessa cortina sovranista.
Con Benitez a Napoli andò più o meno così. Nella conferenza stampa in ritiro, i giornalisti gli risero in faccia quando disse che Callejon avrebbe segnato venti gol (li fece davvero). Per tanti tifosi era il chiattone anche un po’ avvinazzato visto il colore della guance. Il turn-over rappresentò da subito l’incarnazione di Satana. Per non parlare del 4-2-3-1. In più, Benitez era portatore sano di questa incomprensibile predilezione per l’Europa, per le coppe che in Italia sono considerate inutili tranne che in due occasioni: quando le vinci e quando fungono da serbatoio di soldi.
A Napoli venne considerato quasi un affronto essere andati così avanti in Europa League mentre si stentava in campionato. Addirittura fino alle semifinali. La voce di popolo aveva sentenziato: preparava meglio la squadra in Europa perché così sarebbe aumentato il suo prestigio professionale. Era un egoista, pensava soltanto a sé e non al bene del Napoli snobbando il campionato. Viceversa – va da sé – uscire col Granada o con il Lipsia è da sempre considerato un gesto ragionevole e d’amore per la maglia: in linea con gli usi e costumi del luogo. L’Europa è uno sfizio, un dessert. Il campionato è il rustico, è il pasto serio.
Poi, col tempo, Benitez è stato riabilitato. Ma, attenzione, solo in qualità di direttore sportivo.
Fonseca fa quasi tenerezza, sembra invecchiato tantissimo. Ieri sera aveva due segni sotto gli occhi che facevano spavento, mentre alle telecamere si lamentava delle bugie dette su di lui e sulla squadra.
Come i suoi predecessori, continua a provare a spiegare la sua idea di calcio, parla di identità di gioco, di mentalità, dell’importanza di non snaturarsi dopo una sconfitta. Così come Benitez si attardava spiegare cosa fosse il turn over. Capirà troppo tardi, il portoghese, che sono parole al vento. O, chissà, forse lo sa benissimo ma non vuole adeguarsi al contesto. Non riuscirà a cambiare l’Italia ma almeno non vuole che l’Italia cambi lui.
Probabilmente, è un po’ come la storiella della rana e dello scorpione. È più forte di entrambi. Non ci si può sottrarre al proprio destino, al proprio modo di essere.
Fonseca spiegherà fino all’ultimo giorno e la platea continuerà a considerarlo inadeguato e si sentirà rinfrancata soltanto quando si troverà di fronte un allenatore che dopo una sconfitta si lamenterà per le assenze, per i pochi acquisti del presidente o per l’orario in cui la squadra è stata costretta a giocare. Il tutto preferibilmente condito da qualche parolaccia da osteria. E gli astanti tireranno tutti un sospiro di sollievo: finalmente a casa.