La crisi del Napoli è figlia del mancato rinnovamento auspicato da Ancelotti e sabotato da De Laurentiis e Giuntoli
E così, alla fine, a distanza di un anno, che ha ricordato, per dissociazione cognitiva, i mesi del Comitato di Salute Pubblica rivoluzionario, è crollato il mito dell’infallibilità di Gattuso e, soprattutto, la damnatio memoriae dell’esperienza napoletana di Carlo Ancelotti ha lasciato intravedere qualche crepa in una opinione pubblica totalmente schierata a coltivarne l’immagine di sciagura tout-court.
In verità, i segnali c’erano già stati in primavera. Ma molti, presi da un incredibile slancio di generosità, hanno fatto finta di non vedere che, dopo l’impresa di una Coppa Italia, i cui meriti sono indiscutibilmente da attribuire al tecnico calabrese, il progetto tecnico e tattico del suo Napoli stesse lentamente evaporando.
Una miriade di partite giocate con la testa altrove, da una squadra altalenante, il cui rendimento intermittente, dopo una stagione con molte cose da farsi perdonare, era e doveva essere un campanello d’allarme per chi, arrivato con i gradi da sergente di ferro, aveva il compito di tirare fuori l’anima dall’olio di gomito della fatica.
Confesso che, per quanto suggestiva fosse l’idea di un Gattuso come l’iconico maestro di Whiplash (2014) interpretato da J.K. Simmons, non ho mai creduto a questa narrazione. Non ci ho mai creduto perché, da sempre, ho percepito in Gattuso la volontà di rifuggire la retorica che lo accompagnava, in una sorta di rigetto nei confronti della propria storia di calciatore, grande combattente ma con piedi non delicati.
E infatti, a distanza di un anno o poco più, il Napoli, punto più, punto meno, è là, in balia di eventi che, con la rosa che ha e le occasioni prodotte, non è possibile non riesca a governare. Perso in una diatriba tra sistemi di gioco e orfano di centravanti che possano tramutare in realizzazioni una manovra offensiva che nella sua sterilità condiziona l’umore e provoca reazioni epilettiche ed autodistruttive. E allora, per quanto sia consolatorio ed anche ottimistico, si fa fatica a credere che questa squadra possa migliorare cambiando allenatore.
Questa conclusione, onestamente, andava fatta già un anno fa.
I veri problemi del Napoli di Ancelotti affiorarono nell’estate 2019, quando, l’allora tecnico azzurro chiese alla società un cambio di passo, una, diciamolo chiaramente, rivoluzione della rosa che, per quanto forte, era pressoché impossibile da migliorare, perché figlia di un progetto costruito anni prima e conclusosi al Franchi di Firenze, nella primavera del 2018.
La strategia del puntello, del miglioramento continuo su una impalcatura forte, non era più possibile in una rosa che, seppur inconsciamente, non poteva ignorare un passato in cui aveva lottato per primeggiare grazie ad un modo assoluto di intendere il calcio. E infatti, la tensione agonistica che ti porta a giocare ogni partita con la voglia di spaccare il mondo evaporò dopo quell’Inter-Napoli del 26 dicembre, che ci condannò ad una seconda parte di stagione di pochi stimoli e molte tossine.
Ancelotti, nelle ultime conferenze stampa di quell’anno, fu chiaro. L’anno prossimo si cambierà molto, perché è necessario rinnovare una squadra che rischia di assestarsi in una grigia penombra emotiva dalla quale è più facile scivolare. Era ancora maggio e già si parlava di Trippier, Ilicic, Grimaldo, poi di Fornals, Icardi, Duvan, Pépé. Arrivammo a luglio inoltrato con la trattativa James sbandierata ai quattro venti, con tutti che si chiedevano solo quale sarebbe stato il giorno dell’annuncio, ma con due convitati di pietra, Aurelio De Laurentiis e Cristiano Giuntoli, che evidentemente giocarono su due fronti, da una parte rassicurando il tecnico, dall’altra sabotando quelle stesse trattative.
Quel mercato consegnò all’allenatore una rosa zeppa di calciatori che lui stesso aveva messo sulla lista dei partenti. Furono confermati Hysaj e Mario Rui, quando pubblicamente Ancelotti aveva lasciato intendere che quelli non erano i terzini adatti al suo sistema di gioco: fu confermato Insigne, dopo il famoso incontro del 1° maggio, nel quale la cessione fu più che paventata, ma arrivò Lozano, un suo potenziale competitor (anch’egli rappresentato da Raiola). Rimase Callejon, rimase Milik, scaricato dal presidente con parole dure ma nei fatti il centravanti titolare. Il 31 agosto arrivò Llorente, a conclusione di una strategia raffazzonata figlia di visioni troppo distanti.
La rottura umana e tecnica fu inevitabile, sebbene fu mascherata da sedicenti ragioni tattiche, o improbabili ritorni ad un sarrismo mai dimenticato.
Il Napoli attuale allora si fonda ancora su queste premesse. Sull’anelito di un ritorno ai fasti che furono nel solco di una continuità ideale con questi giocatori, le cui mancanze, oramai, trascendono ogni discettazione su sistemi di gioco, moduli, o altro, e ineriscono, ahinoi, ad una mancanza di mentalità oramai divenuta cronica.
E di fronte a questo, bisogna ammettere che neppure Terence Fletcher, e dunque l’epica del sangue e del sudore, riuscirebbero a fare miracoli. Figurarsi Gattuso, che da questa immagine tenta di scappare.
@antcec