Il 4-1 di Napoli fu il primo campanello d’allarme. Il 5-0 del Liverpool il punto di svolta: addio al periodo di sfrontatezza, altrimenti ti fa male
Gira una foto, della faccia di Gasperini – ne girano un sacco, in verità – che trasmette tutto lo stupore dell’uomo più che dell’allenatore. Le venature di sconforto, di cui gli archivi conservano traccia solo nel suo periodo interista, appesantiscono lo sguardo corrucciato. Gliel’abbiamo visto indossato più volte, meno del sorriso sghembo da post-partita Sky, quello che assorbe i complimenti come lo scottex l’olio della frittura. Ma questo è inedito. Non è la faccia al quarto gol subito dal Napoli, ha più crepe.
Il Liverpool va in gol ogni cinque minuti, da troppi minuti, calpestando difensori e spazi, in una sequenza di uno-contro-uno imbarazzante: Toloi contro Mané, Hateboer che insegue Salah. Poi sul 5-0 si ferma, il Liverpool, per carità di dio e per dar modo a chi assiste – anche a Gasperini – di digerire il concetto: in Europa si fa così.
La faccia è quella di Fantozzi quando scopre che gli armadi pieni di sfilatini hanno a che fare con la cotta di Pina per Cecco il fornaio. È un’epifania.
Dopo una vigilia passata a dettare in conferenza stampa le frasi di rito del pugile sfrontato, che mica ha paura di quelli lì (dal mai troppo perculato “non firmo per un pari” a “non è detto che a vincere siano sempre quelli più forti”), succede – guarda un po’ – che vincano quelli più forti. Più forti, va da sé, dell’Atalanta ma anche in senso quasi assoluto. È il Liverpool di Klopp. La densità del gioco a questi livelli è quella del DAS, non bastano le frivolezze dello spettacolo per giocarsela alla pari. E nemmeno autoconvincersi che la semplice ripetizione del mantra “siamo forti” riproduca sul campo una realtà evidentemente illusoria.
A posteriori, si sa, la critica è gratuita, è facile. Ma fa un po’ specie che allo stesso Gasperini servisse una tale umiliazione per svegliarsi, madido di sudore, da quel sogno bagnato che era stata la stagione scorsa. Non che mancassero i segnali, insomma. Sull’onda lunga di tre goleade rifilate a Torino, Lazio e Cagliari, Gasperini s’era ritrovato a dover gestire una rinnovata melassa di complimenti, lui che proprio non è il ritratto dell’umiltà. Al termine d’una estate che forse per la prima volta non gli aveva tolto pezzi importanti dalla rosa, ha davvero considerato l’ipotesi di potersi giocare la combo Champions-Scudetto.
Già a luglio, quando il titolo alla Juve era diventato l’assurdo premio di una partita a “tressette a perdere” tra Atalanta e Inter, Gasperini gonfiava i microfoni di virgolette snob:
“Il nostro palcoscenico è l’Europa”.
E anche pochi giorni fa il tema rappresentato era ancora la subalternità del campionato:
“La nostra testa è tutta alla Champions”.
Un’ambizione da consumarsi l’anima, alimentata dalle prime due partite del girone.
Un attimo prima, però, c’era stato il Napoli. La versione italiana della doccia fredda presa dal Liverpool. Quel 4-1 d’improvviso, ratificato in un tempo appena e poi lasciato decantare nella ripresa. Stesso registro. Segnale non colto. Non ha imparato niente da quella partita, Gasperini. Anzi ha magari insegnato lui, inconsapevole, alla Serie A come NON giocare contro il Napoli: Benevento e Sassuolo, attenti, hanno mandato la lezione a memoria. Gasperini, in difetto d’autoanalisi, ha registrato il cappottone come inciampo. Ha vinto 4-0 col Midtjylland, e poi perso 3-1 con la Sampdoria. Alti e bassissimi, gestiti in confusione. Basta guardare i cambi a partita in corso, e le successive spiegazioni a mezzo stampa: “ho sbagliato”, “ho fatto troppo turnover”, “ora cambierò qualcosa”. Dando l’impressione di non avere bene in mente cosa fare davvero. La folla, soprattutto in attacco, l’ha spiazzato: Zapata e Muriel alternati come fossero un sol uomo, le rotazioni con Lammers, Ilicic, Malinovskyi e Miranchuk come se tutti avessero la stessa efficacia.
Il 5-0 con il Liverpool segna una svolta per l’Atalanta. Di consapevolezza suo malgrado. Un ridimensionamento di prospettiva: svilisce l’idea di potersi imporre senza snaturarsi, un lusso che in pochissimi possono permettersi. A dirla tutta – al di là del risultato – rappresenta un passo indietro teorico. Il grande tranello nel quale superficialmente erano caduti quasi tutti in tarda primavera è che l’Atalanta fosse il totem del calcio totale, malinterpretandone atteggiamenti e statistiche. Invece quel meccanismo funzionava proprio a dispetto dell’estetica: narrata come bella-bellissima, sempre all’attacco, instancabilmente in pressione, l’Atalanta era invece multiforme e stratificata. Gestiva i momenti della partita, sapeva chiudersi, soffiare sul fuoco del gioco altrui quando occorreva, sporcarsi le mani per poi affondare quando era il momento.
Paradossalmente la “nuova” Atalanta è invece più piatta, fossilizzata sull’idea che il mondo s’è fatto del giocattolo. Fino a scoprire che nel mondo dei grandi – l’Europa di cui si sente “provincia” – le cose non stanno così. Gasperini deve fare nuova faccia a vecchio gioco. E la maturità passa per le crepe di quell’espressione nelle foto della disfatta.