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“’Sta canzone però te rice ‘a verità”. In quel “però” c’è il dubbio e l’illusione. C’è la civiltà

Parlare degli Squallor in un albergo in Baviera con Mozart in sottofondo e un distinto signore di Monaco che mi rispondeva citando Virgilio

“’Sta canzone però te rice ‘a verità”. In quel “però” c’è il dubbio e l’illusione. C’è la civiltà

Qualche giorno fa, approfittando delle ferie scolastiche autunnali nelle scuole tedesche, sono partito con i bambini alla volta delle montagne bavaresi. Abbiamo trovato alloggio presso un hotel di Garmisch-Partenkirchen, una ex riserva di caccia di qualche signore locale che doveva certamente chiamarsi Ludwig o Friedrich.

Una sera, mentre mi accingevo a raggiungere la sala dove servivano la cena e l’albergo trasmetteva nei corridoi il terzo movimento della Serenata numero 10 “Gran Partita” di Mozart – un attacco da fare invidia a Little Wing di Jimi Hendrix – mi sono soffermato a fotografare un paio di corna di cervo, o qualche animale simile, tra le centinaia che la direzione aveva meticolosamente apposto su tutti i muri dell’hotel.

Un ospite, un distinto signore di Monaco sulla sessantina, affiancatomi, incuriosito dal mio scatto, si è fermato a sorridermi. Scambiatomi evidentemente per un rinomato etologo, ha iniziato a presentarmi una analisi dettagliata della ramificazione di quella meraviglia della natura finché, dopo avermi domandato come mai ne risultassi così rapito, ho risposto – temendo di deluderlo – che, sebbene non fosse semplice spiegarlo ad un bavarese, a me quel sontuoso ben di dio faceva tornare alla mente una canzone, dai tratti quasi lirici, che a mio avviso aveva segnato un passaggio fondamentale della cultura occidentale.

Il signore teutonico, che da buona tradizione mitteleuropea masticava bene greco e latino, ha dunque iniziato a declamare un verso virgiliano – “Quamquam animus meminisse horret luctuque refugit incipiam” – nel tentativo di offrirmi un biglietto per un breve viaggio nella poesia d’autore; cosicché, trovatomi nel bel mezzo del ballo, ho risposto con una traduzione all’impronta del capolavoro degli Squallor contenuto in Mutando.

È così avvenuto che, mentre l’oboe di Wolfgang Amadeus saturava le stanze riscaldate per far fronte all’incipiente inverno sulle pendici dello Zugspitze, ci siamo ritrovati, in un posto che è il sud del nord e il nord del sud, a discutere, con tanto di mascherina, della decadenza della civiltà occidentale – che in questi giorni mette a nudo la propria strutturale fallacia: abbiamo convenuto nel riconoscere nella scelta dei maestri sbagliati la ragione dell’infiacchimento del nostro mondo. Sull’amore e sul sesso, ad esempio, si è preteso di insegnare ai cittadini di ogni latitudine del continente europeo l’esegesi delle pagine di un grafomane come San Paolo e le sue circonvoluzioni contenute nell’inno alla carità, mentre molti assai più acuti e silenziosi maestri di vita non hanno mai conosciuto gli altari che avrebbero meritato, pur avendo mostrato, sorridendo e senza eccessiva intromissione, la verità della vita. “’Sta canzone però te rice ‘a verità”. In quel “però” c’è il dubbio e l’illusione. C’è la civiltà.

È capitato che in queste ore sia venuto a mancare Cerruti. Questo strano dialogo tra improbabili viandanti circa il comune destino degli uomini forse gli avrebbe estorto un piccolo sorriso. La politica, le istituzioni religiose, i più eminenti sociologi ricercano nella tradizione più nobile la radice della fratellanza universale – un crocifisso, un verso del Corano o della Torah. Io posso solo dire che quell’amico bavarese di una manciata di minuti ha condiviso la sua e la nostra storia di “kornutoni” – una parola che rimane rotonda sotto qualunque inflessione, roboante ed umanissima in qualunque sentiero. È una grande fortuna poter ancora oggi apprezzare la saggezza di questo verbo conoscendo l’idioma originale del Vate Alfredo: sereno e infinito, nei secoli dei secoli.

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