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Un giornalista dell’Equipe racconta i 28 giorni in ospedale per il virus e i pensieri su Lione-Juventus

«Ho pensato spesso a quella sera ma ho potuto contrarre il virus ovunque». La rianimazione, è dimagrito venti chili. «Lo sport mi manca, ma non ad ogni costo»

Un giornalista dell’Equipe racconta i 28 giorni in ospedale per il virus e i pensieri su Lione-Juventus

Oggi il quotidiano francese L’Equipe dedica due pagine al racconto di un suo giornalista – Vincent Duluc – che racconta la sua esperienza col coronavirus. I suoi 28 giorni in ospedale.

Racconta di aver iniziato ad avere la febbre il 18 marzo. L’ha avuta per otto giorni e il medico gli ha consigliato di andare in ospedale.

«Non avevo altri sintomi, solo la febbre. Il 26 marzo sono andato all’ospedale di Rambouillet. Pensavo che fosse solo un controllo, non avevo portato nulla con me. Non avevo difficoltà respiratorie. Ma non appena hanno auscultato allo stetoscopio, hanno visto che i polmoni erano stati colpiti. Mi hanno detto di passare lì la notte. Mi hanno fatto una radiografia e ad ogni esame la diagnosi era sempre peggio. Hanno iniziato a darmi ossigeno, e il giorno dopo ho cominciato ad avere problemi respiratori. Sono rimasto in ospedale per 28 giorni».

Racconta la rianimazione.

«Ci sono andato una prima e una seconda volta. Chiunque lo abbia sperimentato, sa quanto sia esperienza ansiogena. Respirare era diventato un’ossessione. A volte avevo bisogno del 90% di ossigeno esterno. Osservavo costantemente le drammatiche conseguenze dell’intubazione e, per evitarlo, mi chiesero se ero pronto a rimanere tre giorni e tre notti a pancia sotto. Ancora li ringrazio. Per tre settimane, ho dormito a malapena. Rifiutavo di dormire. A volte era necessario rimanere anche tre ore con un respiratore speciale».

Racconta che a un certo punto è come stare in un tunnel «dove non controlli più nulla, dove va tutto velocissimo e tu non controlli niente. Improvvisamente ti ritrovi molto debole e prendi un grosso schiaffo. Sono uscito dall’ospedale con 20 chili in meno, le gambe di Tigana (molto magre, ndr) e col bisogno di una sedia a rotella per poter andare dalla mia stanza al bagno».

Racconta che spesso non aveva voglia di leggere nulla. «Ho imparato che ho contratto la forma più grave della malattia». «Solo nell’ultima settimana ho cominciato a dirmi che stavo meglio, ma sempre con riluttanza. Perché ogni volta che pensavo di stare meglio, me ne sono pentito».

«Dall’inizio di questa storia, mi sono ovviamente chiesto se ci fosse una connessione con la partita Lione-Juve, il 26 febbraio, che ho seguito per il giornale. Dopo la partita, siamo andati a cena in un ristorante dove c’erano i tifosi italiani e lì ho pensato che non era stata la migliore delle idee. Col senno di poi, posso dire che è stato un errore o un rischio. Ma sono passate tre settimane tra quella partita e la mia infezione e nel frattempo ho avuto mille altre occasioni per contrarre il virus».

«Mi è rimasta la dedizione al lavoro dello staff dell’ospedale. La maggior parte lavorava dodici ore di fila senza poter mangiare, un medico in pensione era tornato in ospedale per dare una mano».

«Tutto questo mi fa vivere in modo diverso il dibattito sul ritorno del calcio? Lo sport mi manca. Ho già divorato gli episodi di “The Last Dance”, il documentario Netflix su Michael Jordan, sono stato toccato dalla morte di Robert Herbin. Mi manca il calcio e vivo con il timore di una seconda ondata. Non vedo la mia vita senza lo sport. È sempre stata la mia passione. Voglio ritrovarla, ma non in qualsiasi momento e non ad ogni prezzo»

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