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Mantovani: «Il virus ha smentito le conoscenze scientifiche. I guariti non sono protetti per sempre»

Il direttore dell’Humanitas al CorSera: «Anche da guariti è bene osservare il distanziamento. Non si può contare sulla minore aggressività del virus»

Mantovani: «Il virus ha smentito le conoscenze scientifiche. I guariti non sono protetti per sempre»

Ieri l’Oms ha dichiarato che concedere alle persone una patente di immunità non è possibile. Non ci sono prove che i guariti acquistino l’immunità dal virus. Sul tema si esprime l’immunologo Alberto Mantovani, direttore scientifico dell’Humanitas. Oggi il Corriere della Sera lo intervista.

«Siamo di fronte a un virus che scombussola tutte le acquisizioni fin qui accumulate. Il Sars-CoV-2 dovrebbe rendere consapevoli i ricercatori dei propri limiti di conoscenza. Sapevamo che nella risposta immunitaria prima arrivano gli anticorpi, cioè la traccia del passaggio del virus, di classe IgM e poi, a poca distanza, quelli di classe IgG, in genere neutralizzanti. Questo virus ha sovvertito le regole, segue strade diverse, ha un comportamento originale. Le due classi di anticorpi compaiono con uno scarto di giorni gli uni dagli altri e non siamo certi che assicurino protezione agli individui».

Ci sono ancora troppi interrogativi sul comportamento del virus.

«La rivista Nature tre giorni fa riportava la notizia secondo cui il Regno Unito ha buttato via, dopo averli acquistati, 35 milioni di test. La Cina, secondo indiscrezioni, avrebbe bloccato l’esportazione dell’80 per cento dei kit che si apprestava a commercializzare proprio perché le industrie avrebbero corso il rischio di fare una pessima figura, considerata l’inattendibilità dei test. Il pericolo è che un uso inappropriato dei saggi, che vengono offerti anche da laboratori privati, possa dare alle persone la presunzione di essere immuni e quindi generare comportamenti irresponsabili: non usare mascherine, non rispettare le distanze. Altra questione è avviare studi epidemiologici sulla popolazione come sta facendo il ministero della Salute».

Il comportamento del virus, continua, è insolito, tanto da spiazzare gli scienziati.

«Gli anticorpi anziché intervenire subito per difendere l’organismo dagli attacchi di un agente estraneo, arrivano tardi, anche a 15-16 giorni dalla comparsa dei sintomi. Questo virus è un professionista nel sopprimere e deviare la risposta immunitaria, come mostrano studi svolti in Cina. Altra stranezza. C’è una fase della malattia da Covid-19 in cui un individuo può mostrare contemporaneamente la presenza di virus e anticorpi. Significa che la partita tra i due è ancora in corso, non è finita e si deve andare ai tempi supplementari. Di regola se l’infezione è in atto, gli anticorpi non sono presenti in quanto sono stati sconfitti. In questo caso si ha dunque una fase di perfetto equilibrio tra immunità e agente patogeno».

I dubbi sull’immunità non pregiudicano, però, il cammino verso il vaccino.

«La risposta immunitaria non è solo basata sulla risposta di quegli anticorpi. Nella guarigione da un’infezione virale, determinanti per la vittoria della partita sono i linfociti T, cellule che circolano nel nostro sistema e fanno da direttori d’orchestra delle difese. Sono poliziotti buoni, alcuni dei quali uccidono le cellule infettate dal virus. Gli anticorpi se neutralizzanti e indotti dal vaccino intervengono nella fase iniziale dell’infezione e la bloccano. Per questo è importante che tanti vaccini siano attualmente in fase di sviluppo utilizzando strategie diverse. Un vaccino per il coronavirus non è mai stato provato sul campo. Quello in studio per la Sars si è fermato alle fasi preliminari. Sarebbe il primo contro un coronavirus».

Chi guarisce dal virus non è certo che sia immune per sempre.

«Potremmo essere ragionevolmente sicuri che per un certo periodo di tempo resterà protetta dal Sars-CoV-2 a condizione che non abbia più il virus e abbia un alto livello di anticorpi di tipo IgG, quelli neutralizzanti. Potremmo dargli una sorta di patentino rosa di immunità con una scadenza di qualche mese sulla base di quello che sappiamo per ora. La Sars dava ai guariti un’immunità di 2-3 anni e questo virus gli è parente quindi si potrebbe sperare in una protezione di questa durata».

Il rischio che chi ha già contratto il virus si ammali di nuovo, però, sembra essere basso in base ai dati che si possiedono.

«I rari casi di reinfezione sono forse legati al fatto che il virus non era davvero scomparso. I tamponi hanno un alto tasso di falsi negativi. Per questo anche da guariti è bene continuare a osservare le regole del distanziamento sociale».

Il fatto che arrivino in ospedale pazienti meno gravi non dipende dal fatto che il virus sia meno aggressivo.

«Siamo alle prese con un virus relativamente stabile e questo è incoraggiante per studiare il vaccino. Il coronavirus della Sars uccideva il 30% degli ospiti, si autolimitava e aveva la tendenza ad attenuarsi. Questo ha un tasso di mortalità relativamente basso, ma si ritiene di non poter contare sulla sua generosità in termini di attenuazione. L’arrivo in ospedale di pazienti meno gravi è probabilmente dovuto alla nuova fase dell’assistenza. Passato lo tsunami dei primi contagi, finita l’epidemia influenzale che ha creato confusione, la rete assistenziale ha saputo riorganizzarsi, le diagnosi sono precoci, i farmaci vengono utilizzati con saggezza dai clinici».

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