E’ il paradosso di Allegri, che smentisce se stesso con l’Atletico e diventa incoerente col Genoa. Si riapre il confronto tra catenaccio e tiki-taka
Si può vincere anche giocando bene
E’ il paradosso di Allegri, che smentisce se stesso con l’Atletico e diventa incoerente col Genoa.
Gioca male, ma vince. Questo il refrain che ha accompagnato la Juve nel corso del campionato. Vero. Ma niente a che vedere con la rimonta sull’Atletico, vinto alla tedesca, con forza, tecnica e gioco di squadra.
Annullato e sterilizzato il “cholismo”, che quando esagera sembra entrare in una macchina del tempo. Un gioco che è una vera schifezza e lode ai sarristi, sacchisti, guardiolisti, che un’azione da rete l’avrebbero prodotta e una marcatura di Ronaldo più efficiente anche.
Il confronto tra catenaccio e tiki-taka
Si riapre il confronto tra catenaccio e tiki-taka (estremizzando) o, se volete, tra spettacolo e utilitarismo; tra chi spera di colpire in contropiede, distruggendo gioco e mordendo caviglie, e chi tocca palla all’infinito, aspettando Godot e il corridoio giusto per infilare la rete.
Due estremi molto annacquati per l’occasione, formule spurie, che hanno consentito, comunque, a 80mila allenatori presenti allo Stadium di immedesimarsi nel gioco della loro squadra. Stavolta, a fare spettacolo è stata la Juve (vincente) e a praticare il nulla catenacciaro l’Atletico (perdente).
La storica rimonta dell’Inter
Il clima d’attesa per l’impresa impossibile – rimontare il 2 a 0 dell’andata – ricorda la semifinale di una storica Inter-Liverpool, maggio ’65. 3 a 1 degli inglesi a casa loro, 3 a 0 a Milano incredula, con reti di Corso, Peirò, Facchetti. La sindrome cholista del catenacciaro Herrera (eresia) fruttò allora la Coppa dei campioni. Oggi una figuraccia per il Cholo e il trionfo per Ronaldo & c., diventati per l’occasione belli e potenti.
E’ vero che la Juve non gioca, ma vince? Non in coppa, però.
Si spegne sul campo l’annosa e inutile polemica sul bel gioco, che la Juve non saprebbe fare, dotata, invece, solo di soldi, fortuna e favori. Con l’Atletico non è stato così e sarebbe il caso di considerare i bianconeri per quelli che sono. Una squadra adulta, cosciente della sua forza, che sfrutta bene i privilegi e con uno statuario “ghe pensi mi” in soccorso alla bisogna. Non è la sindrome di Stoccolma a suggerire questa presa d’atto. La sequestrata che s’innamora del sequestratore. Ma la necessità, se si vuole competere, di attrezzarsi e non solo in campo. Altrimenti, la Juve continuerà a mietere scudetti, anche contro la legge dei grandi numeri.
Che rimane della concorrenza?
La domanda c’è tutta. Qual è la più bella del reame? Lasciando stare la Juve, che è fuori concorso, facciamo un gioco di specchi tra Napoli e Inter, due realtà delle cinque date per vive agli inizi del campionato. La prima alle prese con la transizione ancelottiana. La seconda candidata d’ufficio al ruolo di anti-Juve. Passano pochi mesi e gli azzurri si sono ritrovati da soli ad affrontare la Signora. Almeno fino a quando hanno potuto. Mentre i nerazzurri si sono aggrovigliati nella rete di una crisi-non crisi e addio al ruolo di protagonista.
Il cineNapoli di DeLa doveva transitare da Sarri ad Ancelotti, con un terzo di giocatori nuovi da lanciare nella mischia. Giovani e plusvalenti. Si passava dagli schemi “socialisti” del gioco collettivo a quelli “liberal” del singolo che risolve da solo la partita; dalla rigida chiamata alle armi dei titolarissimi alla panchina delle riserve che restavano tali; dal controllo totale del campo alla tattica dello “scippa e fuje”.
L’Inter cinese di Steven Zhang, proveniente da dispendiose campagne acquisti, doveva finalmente fare squadra e gioco, trasformando una ciurma in un’orchestra, con l’aggiunta del Milan, nuovo vicino di casa e di punteggio, in una sorta di derby intercontinentale.
Cosa ha decretato, invece, il campionato reale e la smentita di tutte le previsioni e classifiche di carta? Parafrasando la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio: come un’azienda artigianale cum grano salis riesce a superare multinazionali e fondi d’investimento sine grano salis. Almeno nel calcio.