Milik, Zielinski, forse Rog. Il Napoli abbraccia un mondo interessante e dissacrante e chiude i conti col passato sudamericano.
Con Strinić, Hamšík, Milik, Zieliński (e magari Rog e Maksimović), il Napoli ha operato una decisa svolta slava nella squadra. Non so quanto pianificata, ma estremamente interessante. Gli azzurri hanno abbandonato il profilo sudamericano degli ultimi anni, forse anche un po’ scontato, ed hanno abbracciato una soluzione maggiormente rivolta all’Europa centro-orientale.
È un dato interessante, soprattutto fortemente moderno, specie perché la realtà slava nel nostro continente unisce molti degli elementi latino americani del Nuovo Mondo a peculiarità squisitamente europee. Anzitutto una lingua vasta, che si articola e si caratterizza lungo le nazioni, muta, si contorce, ma rimane largamente comune attraverso i confini. Una radice idiomatica che affratella milioni di persone pur conservandone tutte le splendide differenze, rievocandone storie remote e recenti attraverso alfabeti barocchi e grammatiche complicatissime e lontane da ogni origine latina, di rarissimo fascino. Una lingua che è un popolo, migrato nei secoli, che si è miscelato lasciandosi inquinare da mille altri costumi, come un fiume – tanto che c’è chi sospetta che il termine slavo derivi dalla radice indoeuropea *kleu, ovvero ciò che scorre-; un corso vivo che ha assorbito ed è rifiorito nel letto della cultura austro-ungarica, divenendo lo specchio di tutto quanto è magico e gotico, oscuro e splendente. Gli slavi sono tradizionalmente dissacranti disquisitori della morte, un’abitudine che li avvicina molto alla più aristocratica tradizione napoletana. Slavi e tedeschi assieme furono Kafka, Freud, Tesla; slavo fu Gödel, il più grande e geniale logico di tutti i tempi, padre della moderna teoria della computabilità e nato a Brünn, al tempo parte dell’impero austro-ungarico e oggi divenuta Brno, la seconda città della Repubblica Ceca; slavo fu Smetana; nella zona slava insegnò Tycho Brahe, astronomo scandinavo venuto ad insegnare alle corti praghesi, ricoprendo a ritroso i sentieri che tanti ingegneri bulgari e slovacchi oggi percorrono verso i centri di ricerca in Danimarca e Svezia.
Gli slavi sono uomini e donne caratterizzati dalla lingua, prima che dalle terre d’origine. Sono anzitutto parola prima che materia, perché sono dissimulatori, abituati ad assecondare i movimenti della terra prima che a imporvisi, e sanno portarsi con leggerezza un marchio a fuoco nel nome, il loro – il medievale sclavus è lo schiavo in italiano – e lo fanno maneggiando lettere col furore di un magma vulcanico, creando dinastie epiche di nomi straordinari. Arkadiusz. Dragan. Dejan. E Zlatan, su tutti, il gigante che si è trasformato in svedese per necessità fino a diventarne l’emblema. Lui che chiamano lo zingaro, come fanno tanti illusi nei confronti degli slavi; come chiamano con fare sprezzante la cialtronesca compagnia di Eduardo nella commedia Uomo e galantuomo – “Siete zingari!” – provocando un risentito disappunto del maestro napoletano – “Noi non siamo zingari!” (Eduardo non era esattamente ciò che oggi si direbbe un progressista, per molti versi). Mentre i gitani, i senza fissa dimora, i famosi nomadi, esseri notturni, questi ratti della storia sono anche i veri padroni del mondo, lo conservano e lo tramandano con la nobiltà inarrivabile dei veri re. Come i veri capitani, sul campo.
Un Napoli slavo è una nuova pagina. Due mondi che si cibano da sempre di quanto è politicamente scorretto, perché le parole non solo le padroneggiano, ma le creano. Come in divine fucine linguistiche. Perennemente affamati eppure vivi. Forse quello che ci vuole per chiudere i conti con qualche passato ingombrante e voltarci verso i nostri fratelli orientali. Lì dove il futuro, oggi, sembra stia avvenendo.