Servire una causa. Questo è, in fin dei conti, tutto quanto chiediamo alla vita. E quanto chiede anche Francesco Totti, probabilmente il più grande talento della storia del calcio italiano, dice “dopo Valentino Mazzola” chi ama l’almanacco, figlio di una mamma enorme e spaventosa come una capitale, come e più dei suoi connazionali che lo scrutano, intervistato su Raisport, cercare una soluzione che non esiste al declino – forse un po’ di rispetto, forse un po’ di chiarezza, gestire meglio la cosa, insomma amatemi, anzi no, illudetemi che io ancora, da qualche parte, in qualche reparto, tra qualche linea di centrocampo, serva a qualcosa.
C’è più di Pupone contro Spalletti, molto più della chiacchiera scudetto o piazzamento, ben oltre la maglia giallorossa. Quello di Totti è un carme alla dea Utilità, la vera Moira di questi anni, che salva o condanna, spietata anche di fronte ad un eroe che si genuflette in preghiera proprio come tutti noi mortali quando a muoverci è la vera madre delle pulsioni, quella spinta a trovare un minuto segmento nella storia di cui sentiamo di conoscere a menadito il codice, un luogo che ci assicuri un posto da esperti di qualcosa, la domanda di qualcuno che ci consulti e disseti così il nostro orgoglio smagrito; recuperare un pallone per riacciuffare un pareggio che ci regali l’illusione che chi ci cerca per una intervista a fine gara abbia pensato a noi come prima scelta e non come deludente ripiego.
La Moira dell’Utilità, lo si riconosca, è la divinità guida di tutti noi in questi secoli. Il declino che tutti temiamo è il margine dell’inanità che si rifugge una vita intera e che ci rende sopportabile a tratti anche solo una mera sopravvivenza; ci mostra come meraviglioso, quando capita, un angolo scuro di uno sgabuzzino su cui noi, e noi soltanto, siamo autorizzati ad entrare per apporre quel timbro sul foglio che serve a far andare avanti la baracca. Anni fa un altro capitano che vestiva gli stessi colori di Totti bardati con lo scudetto si piantò una calibro 38 sul petto, lasciandosi dietro qualche riga in cui confidava di non riuscire più a vedere una uscita dal tunnel. Era un mite, Agostino Di Bartolomei, ma anche un capitano coraggioso. Giunge sempre un momento in cui si smette di vincere contrasti sulla mediana e si inizia lottare per convincersi che esista una diversa interpretazione possibile per se stessi, che la società, il mondo, l’ambiente o come chiamiamo tutto il testo, non ci rigetti come degli scalcagnati ex-qualcosa. Anche un genio come Godfrey Harold Hardy, che nel suo Apologia di un matematico intese difendere il valore sublime del proprio lavoro nella sua intrinseca inutilità – «Io non ho mai fatto niente di “utile”. Nessuna mia scoperta ha fatto o potrebbe fare, direttamente o indirettamente, nel bene o nel male, la minima differenza per la piacevolezza del mondo.» – non riuscì a sostenere il peso della propria incombente irrilevanza. Un matematico ha vita fino ai venti anni, sostenne, dopo i quali la vena creatrice appassisce e muore, similmente ai fantasisti della trequarti. Tentò il suicidio due volte, prima di quel libro e dopo, la seconda volta con successo. Si possono intravedere e recitare sublimi formule asintotiche o immaginare e disegnare irriverenti cucchiai nei Campionati Europei, non basteranno a disperdere le scorie della donchisciottesca lotta dell’uomo contro la propria inutilità. Contro il non senso di questo abbandono. Sui banchi delle università tanto quanto sui campi di calcio, tutti siamo condannati a servire qualcuno, diceva il Dylan del 1979 in una canzone di cui Nick Cave avrebbe detto: “Quel trascinarsi predatorio dell’apertura, le liriche intrecciate, la voce logora e seducente, l’immensa mancanza di carità nel suo messaggio, il senso di agonia del tutto”. La mancanza di carità, ecco cosa è che ci spaventa. L’agonia del declino.
La Storia, quella cui il secolo trascorso si è completamente consacrato, carità non ne ha, non ci si illuda, neppure nei canti sacri della domenica o nelle riunioni di partito di chi ritiene ogni proprio gesto un investimento in un presunto disegno più grande di cui si è parte, perché nella razionalità stringente della logica degli eventi sono sempre i risultati utili a costituire gli unici mattoni di ciò che verrà. Le preghiere recitate. La realpolitik. La striscia utile consecutiva, il passaggio utile, il rapporto tra assist utili e inutili. I coefficienti che così si costruiscono sono la base della storicizzazione del calcio e dei suoi onerosissimi quanto necessari utili. Poi ci sono scampoli di sovversione che aprono improvvise vie secondarie, come accadde quando Caravaggio consegnò ai Carmelitani Scalzi della chiesa di Santa Maria della Scala a Roma un olio su tela di una Vergine morente che ritraeva una prostituta morta nel Tevere. La Madonna era, nello spettacolare pallonetto pittorico dell’autore, in quel gesto di assoluta insensatezza, il sommo dell’inutilità più immorale e reietta. Venne respinto – ça va sans dire – con profondo sdegno nel nome dello storicissimo bene comune, quello che ai giorni nostri va sotto i nomi delle migliaia di solerti associazioni a difesa di qualcosa; eppure oggi di quei Carmelitani spallettiani non si ricorda neppure un nome, tutti all’ombra della luce abbagliante di un artista come Francesco, il quale si immagina ormai in un qualche studio televisivo centro di accoglienza per anziani, dove si ricicla il materiale umano a disposizione e si lucida l’usato d’occasione per un rotondo ed inutilissimo commento tecnico.
Cosa rimane, dunque, agli uomini e ai loro eroi quando la Moira Utilità recide il filo? Il posto da dirigente. La mansione di prestigio che seduce come la reunion di band pop sfasciate dagli anni che non sanno salvarsi dal ridicolo. Di utile non rimane niente. Resta l’enigma, quello che si nasconde dietro una verità più sedimentata, avvezza a suoli ancora più aridi e polverosi. Una verità radicata e contorta come la Ginestra leopardiana che si staglia prima di ogni senso di utilità, prima della Storia, e rinasce sul niente, sul vuoto spinto. Dedichiamo una vita intera all’utile per poter puntare tutto il nostro guadagno sull’inutile – sul ricordo di quell’istante in cui la palla varca la linea eppure la partita si perde, su quel capolavoro dipinto e mai consegnato, sulle formule scritte e mai servite. Sul niente.
Il calcio questo enigma lo sa contenere perché prima ancora che di piedi e calzettoni è anzitutto un gioco di ombre delle ventidue anime in transito sul campo. Le luci dei riflettori richiedono utili e fatturati che coprano le salate bollette da pagare. Ma quegli utili sono al servizio di un cucchiaio. Nel calcio l’utile è il servo segreto e deferente dell’inutile.