Si gioca, vince e perde sul campo – d’accordo; ma la struttura che a quel gioco dà anima, e su cui si posa la rete dei significati, sono le parole – i simboli e ciò cui essi rimandano. Mercoledì è stata una giornata di segni potenti, evocativi, di quelli che si addensano solo in notti di alchimie grandi come la lotta al passaggio in Champions tra Bayern e Juventus.
Un fiorire di segni sulla via dell’incontro. Il seme lo ha piantato la società tedesca confezionando un tweet che ha saputo muovere le corde giuste e nascoste dell’avversario: un Neuer gigante si erge attraverso l’ovale dell’Allianz, dietro il cartello appena inchiodato all’estremo di un binario morto che recita un canzonatorio “fino alla fine”, appena cassato. La frase degli avversari, nell’idioma degli avversari. Padroneggiare la lingua degli ospiti per creare la scena psicologica giusta ed inoculare il bacillo del timore. La stampa italiana risponde pressoché compatta, si fa voce dei bianconeri e loro scudo: Crosetti su Repubblica chiama gli spettri che quella infausta immagine evoca, Cazzullo sul Corriere si spinge oltre, ma con un lessico abbastanza familiare: le scuse non bastano, scrive. Quell’oscenità va cancellata, dai server, dalle memorie dei sistemi – diritto all’oblio per il Neuer furioso.
Sono parole perentorie, assolute ed estreme, che abbiamo letto anche recentemente, a confortare il rifiuto sdegnato di Mancini alla richiesta di scuse di Sarri. Sono i famosi valori non negoziabili che i sacerdoti del tempio conficcano nel terreno della morale, e se ci capita qualche braccio sotto pazienza. Peccato che neppure nella fervida fantasia del più irriducibile dei tifosi si possa immaginare che un tedesco, nel 2016, non possa disegnare una ferrovia, un binario, una bozza di rotaia se non dopo il vaglio del redivivo tribunale di Norimberga. La fantasia tifosa che vive in un tempo tutto suo, tempo delle fate in cui si disperde la realtà – quella del razzismo sputato e perdonato sui nostri campi che fa da contraltare a tifoserie di una nazione che accoglie milioni di rifugiati veri, in carne ed ossa, che quei treni li usano per viaggiare dall’Ungheria alla Germania attraverso la Repubblica Ceca. E chiedere asilo.
La stessa fantasia bigotta corre su giornali, alla radio, nelle tv. È stata una prestazione epica, totale, trascendentale della Juventus. I settanta minuti iniziali hanno mostrato un dominio mentale della gara così vasto che tutto il resto deve sbriciolarsi: si ritirano gli errori commessi a sessanta secondi dalla fine, si dissolvono i quattro goal subiti, scompare finanche la sconfitta perché si prosciuga questo termine del suo significato e lo si nasconde. Cassiamo “finocchio” per non essere omofobi, cancelliamo i treni tedeschi per tramutarci in partigiani, aboliamo il termine sconfitta per non perdere mai. È questo il mondo raccontato da molti media, cui ci introduce lo spirito degli ultimi dieci anni di una squadra, quella bianconera, che, a differenza dei suoi campioni del passato, di questa inautenticità, di questa virtualità, che è poi la vera omologazione del presente, di questo politicamente corretto nel linguaggio e nelle idee, è la vera portavoce unica. Un mondo senza parole dolorose è un mondo senza dolore, e questa madre di tutte le illusioni genera i veri mostri delle coscienze; l’incapacità di far convivere le proprie contraddizioni, e di farlo anche abbandonandosi ad un certo piacere; l’imperativo unico ed assoluto di vincere o seppellire tutto.
Bene. La Juventus ha perso. E ha perso male. Ed ha perso anche per questo gap culturale. Ha costruito una gara perfetta, ha partecipato ad una partita epica. Ma non è bastato. È stata travolta. Ed ha mostrato le sue debolezze, tattiche, tecniche, persino di rosa, in un luogo in cui non ci si indigna come false mammolette per un disegno, se quel disegno non rimanda a niente che sia reale, concreto, umano come una sconfitta.
Cari napolisti, gli azzurri hanno scelto il Ciuccio. Come ha detto perfettamente la professoressa Marmo, lo hanno fatto perché esso simboleggia il destino comune, che è quello di perdere. È la morte condivisa che è la sconfitta cui tutto è destinato. Ma è anche l’animale che quella sconfitta se la gioca in un giro di danza che non è macabro perché mantiene il distacco aristocratico dell’ironia. Una risorsa inesauribile e necessaria per stare al mondo senza censurare nulla, neppure le proprie folli manie.
Il Ciuccio c’è e le parole le forgia, non le teme. Ed il campionato non è finito.