Il fantasma ha cambiato nome. È accaduto agli inizi di febbraio, d’improvviso. Il fantasma non si chiama più Soriano (non Osvaldo) bensì El Shaarawy. Come se nulla fosse, nella notte il centrocampista della Sampdoria è uscito dalle nostre case ed è stato sostituito dal piccolo faraone: un attaccante moderno che aveva impressionato ormai tre stagioni fa e poi si era perduto tra la nebbia di San Siro e la curva del tabaccaio. Il nuovo mantra è: “Altro che panzane sugli equilibri da mantenere, la Roma ha dimostrato che a gennaio le squadre si possono rinforzare eccome, basta cacciare i soldi”. Come se i venticinque milioni spesi dai giallorossi per Iturbe non fossero soldi, come se la Roma non stesse disputando un campionato abbondantemente al di sotto delle aspettative, come se Spalletti non ne avesse rivoluzionato il gioco facendo accomodare in panchina Dzeko – l’oggetto dei desideri estivi –, lasciando vendere Gervinho e lanciando gli acquisti invernali Perotti ed El Shaarawy. Parliamo della Roma, squadra seconda favorita per il campionato e che al momento è cinque punti dietro in classifica.
La situazione oggi è la seguente. Se il Napoli dovesse arrivare secondo – posizione per cui tutti avrebbero firmato ad agosto – avrà compiuto il proprio dovere ma resterà forte il rammarico. Se dovesse malauguratamente centrare il terzo posto, la colpa sarebbe unicamente del presidente che a gennaio non ha preso calciatori in grado di irrobustire la rosa. Anche se adesso siamo fuori sia dalla Coppa Italia sia dall’Europa. Se poi dovesse vincere il coso, allora il presidente ha avuto la fortuna di trovare un allenatore e dei calciatori in grado di compiere il miracolo. Il soggetto cinematografico è noto. Qua e là, anche sui quotidiani, le prime bozze cominciano a circolare. Come se il Napoli non avesse già dallo scorso anno una rosa di tutto rispetto che in estate è stata ulteriormente rinforzata con gli arrivi di Reina, Allan e Hysaj.
Il tutto in una città che continua a fare notizia per avvenimenti non proprio esemplari. Ma a Napoli Aurelio De Laurentiis deve improvvisamente diventare imprenditore illuminato. Realizzare uno stadio sul modello Juventus, dar vita a un merchandising da far impallidire Real Madrid e Barcellona, e allestire un vivaio sul modello cantera. Insomma, De Laurentiis deve stabilire cosa vuole fare da grande, se provare a sfidare il modello Juventus oppure accontentarsi. Come se Napoli, una volta liberata da De Laurentiis, potesse finalmente dar vita a una società sul modello Bayern Monaco. Napoli, lo ricordiamo, da due giorni è in prima pagina per scene non certo edificanti all’esterno di seggi elettorali. Diventa caso nazionale ogni qual volta si va alle urne. Imprenditori e investitori che si accapigliano per la realizzazione dell’otto volante più veloce del mondo – affianco ad alberghi, centri congressi, zone verdi – a Bagnoli non se ne vedono. Bagnoli là stava nel 1993 (Maradona era andato via da due anni) e là sta nel 2016. Il Napoli, nel frattempo, dopo aver subito l’onta del fallimento, ha giocato due Champions, ha vinto due Coppe Italia, una Supercoppa d’Italia, centrato un secondo posto e una semifinale d’Europa League. Napoli città sta ancora aspettando Bagnoli, insomma i palloni devono ancora arrivare.
In settimana, Pier Paolo Polcari ha scritto una lettera interessante al Napolista. Non contesta a De Laurentiis l’avarizia, anzi ammette che i soldi li ha cacciati eccome, si sofferma sulla fuga di talenti campani, sull’incapacità del Napoli di creare una rete in grado di scovare e allevare talenti locali come ad esempio Immobile e Criscito. I soli fratelli Insigne sono troppo poco per una terra calcisticamente fertile. Il discorso ha ovviamente una sua logica. È impossibile rispondere, solo De Laurentiis potrebbe farlo. Di certo, le azioni parlano per lui. Se in undici anni (che non sono pochissimi) il presidente del Napoli ha scelto di lavorare a una società che possiamo definire liquida, avrà avuto le sue ragioni. Non può essere frutto del caso. È una scelta precisa. Che può dipendere da vari fattori. Uno è senza dubbio la difficoltà che ha De Laurentiis di delegare. In ogni campo. Per capirlo, basta leggere le parole con cui Carlo Verdone descrive il momento in cui sottopone il copione al produttore Aurelio De Laurentiis. La fase della delega nel Calcio Napoli è finita con l’addio di Marino. Ampliare l’azienda significherebbe dover delegare, non poter controllare tutto in prima persona. In un settore, come quello giovanile, infestato da squali che spesso lucrano sui sogni e le aspettative di ragazzini e delle loro famiglie.
Il contesto è importante. Spesso, anzi quasi sempre, il tifoso del Napoli considera la propria squadra come un alieno che una settimana sì e una settimana no atterra a Fuorigrotta e gioca al San Paolo. È un discorso che tanti non vogliono ascoltare. In una società di mercato, De Laurentiis sarebbe aggredito economicamente e con piani di investimento da concorrenti in grado di assicurare un futuro più florido alla società. Funziona così. Oppure, vecchio sogno per alcuni mai tramontato, con la maturità di una tifoseria in grado attraverso l’azionariato popolare di caricarsi sulle spalle l’amata società, con la speranza di trovare qualcuno che ci dia l’euro per partecipare. A Napoli sembrano utopistiche entrambe le soluzioni. In fondo, la storia è sempre la stessa: da “Ferlaino vattene” (l’Ingegnere oggi riabilitato fu aspramente contestato più volte anche dopo l’età dell’oro) a De Laurentiis cacc’e sorde, da Soriano a El Sharaawy. L’importante è che ci lascino il palchetto per dire le nostre malignità da vecchietti del Muppet Show. Ignoriamo le miserie che ci circondano e ci indigniamo per un secondo posto. Come farebbero a Madrid. Questa sì che è sprovincializzazione.