Giorgio Manganelli si presenta in bretelle. La sua erre arrotata alza un piede dal suolo, per garantire un’alternanza tra esistente e inesistente. Uomo di lettere, autore, traduttore, si interessò a ciò che non è pur essendo sempre.
«Non saprei, signor mio, cosa dire di questa sua presentazione. Ogni volta che ho detto qualcosa di me, non ho mai evitato di contraddirmi; anzi, ho cercato di spingermi all’estremo dell’assurdo senza mai toccarlo, ma volontariamente, per non rubare la scena alle parole e non restare io allo scoperto e mostrarmi per quello che sono: un pigro che si porta l’olio d’oliva con sè in viaggio».
Signor Manganelli, la ringrazio di aver accettato di rispondere ad alcune domande sul calcio e in particolare sulla squadra del Napoli.
«Si figuri, non mi sarei mai opposto a una così interessante discussione, tanto più che posso restare in pantofole. Il calcio è lo sport in Italia, ma resta argomento alquanto ostico da affrontare, soprattutto per quella sua tendenza ad essere mito in continua e autonoma evoluzione. Un mito, si sa, lo si agguanta al momento opportuno e lo si sbuccia come una cipolla finchè non gli ricresca il pelo; ma il calcio si getta ai nostri piedi pieno di simbologie proprie, senza dare, allo scrittore in particolar modo, null’altro se non la possibilità di una radiocronaca. O forse voi usate dire telecronaca».
Forse c’è ancora qualcuno che comprende il termine radiocronaca, si senta a suo agio.
«Sentirmi a mio agio! Un lusso, direi; sono un orco fallito e per giunta timido».
Per che squadra tifa?
«Non è chiaro a nessuno il processo che porta a preferire questa o quella giubba o casacca. Sono di Milano ma di origini parmensi; secondo la teoria che vede la bandiera tra i filamenti del DNA, dovrei tifare Parma; per le terie sociopolitiche, Milan. Io mi affido al mio sguardo: ho un vecchio bianco e nero, lo comprai alla Rinascente; quando prendo la sintonia mi accorgo che la pupilla scappa verso gli angoli occulti del televisore, dove il grigio diventa nero, dove è sepolto l’allenatore».
Mi sta dicendo che le partite la annoiano?
«No, tutt’altro, dico solo che il mio interesse cade su due personaggi al limite del reale come Biancaneve e tre quarti dei sette nani».
Quali sono questi personaggi?
«Gli allenatori e i tifosi. Ed è per questa mia insana curiosità per ciò che è ai margini dell’ovvio che, per indole squisitamente personale, quindi, tifo Napoli».
Questo è interessante: può spiegarsi meglio?
«Ci proverò. Il mio interesse per gli allenatori nasce dal ruolo che essi sanno avere nei televisori in bianco e nero; come ho detto restano relegati in un bidimensionale monocromatico, e se due meno uno fa uno, a me resta una singola dimensione su cui fantasticarne cento. A questo aggiunga che Sarri è l’ultimo ad avere un qualche carisma nascosto, una mitezza d’altri tempi, forse dei miei e non dei vostri, che mi rende il gioco semplice; gliel’ho detto, sono pigro».
E cosa ha fantasticato sul nostro Mister?
«Non vorrei sbilanciarmi, non mi sono mai occupato di politica, ma la risposta sulla Democrazia Cristiana, col suo peculiare suono rauco, mi ha fatto sorridere. Quello che più mi colpisce però, sono gli occhi che spuntano dagli occhiali, come se volessero sfuggire ad esser corretti, per non alterare la visione del gioco. Magari se potesse mettere a fuoco sbaglierebbe i cambi e la disposizione della rosa. Pensi che fortuna deve essere per un uomo gestire undici giocatori che formano una rosa; se le lenti offuscassero la sua vista, crollerebbe Sansone con tutta la serra, e gli apparirebbero davanti undici in calzoncini e calzettoni; nel mondo in bianco e nero in cui mi tuffo la domenica, Sarri diverrebbe un gerarca pronto a marciare su Roma, santocielo! Un allenatore, quindi, ha come seconda dimensione la cattiva vista».
Ci sono altre dimensioni?
«Ci aggiungerei quella sorta di bastoncino di liquirizia che gli rotola in bocca, immagino abbia una polpa centrale al ribes che, una volta raggiunta, libera nelle ghiandole un flusso fantastico dai colori di una veste degna del califfo di Bagdad, un velo di maya che gli oscuri gli occhi. Il resto delle dimensioni le sceglie Sarri stesso, quindi, nel suo buio. Non ci è dato sapere di più, sarebbe pura speculazione».
Mi diceva anche del tifo…
«Il tifo è come le mie bretelle: irreale e reale, porto sempre anche la cinta difatti. Mi domando spesso: il tifoso esiste? Come italiano ne sono convinto, quella del calcio è l’unica liturgia che resiste, ed è circondata di magia più alta della transustansazione, a dirla tutta. La sua eco percorre settimane e vacanze a Rimini, saltella per le spiagge e affetta il panettone, si parla di calcio sempre. Ma tutto questo non descrive il tifoso. Pinocchio era un burattino, Magiafuoco un orco, il tifoso? Mi riempe di meraviglia pensarci».
Ed è mai giunto a qualcosa che si avvicini ad una definizione?
«Il tifoso è uno scrittore».
In che senso?
«E’ scrittore chiunque non capisca nulla di letteratura; non ho mai conosciuto un tifoso che capisse qualcosa di calcio. Lo scrittore è un uomo, l’uomo è un tifoso, e così via».
Tutto qui quello che ha dedotto sui tifosi?
«In realtà ho pensato anche altro. Nei miei viaggi in India ho potuto notare che gli autoctoni avevano due peculiarità: parlano spesso tra loro delle loro deiezioni, hanno un’idea di Paradiso più articolata della nostra, che altro non è se non un nulla che si compiace di sè, e per l’Inferno la descrizione è rapida: coincide con la vita, mentre noi dell’Inferno abbiamo un’idea come di città. Il tifoso risulta l’ombellico tra due ventri opposti di civiltà, è un Paradiso urbanizzato. Dentro ognuno di noi c’è un labirinto necessariamente labirintico come un inferno, il tifoso gestisce le più nascoste delle viuzze semplicemente nascondendole di più e meglio, creando il propio polemico Paradiso, esistendo semplicemente in una domenica allungata».
Lei parla dei suoi tempi, ormai la settimana è piena di calcio…
«Tutte le religioni tendono a conquistare il tempo come ultimo e disperato passo».