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Mario Riccio: la passione del militante, la sobrietà nella costruzione della notizia

Mario Riccio: la passione del militante, la sobrietà nella costruzione della notizia

“Guagliò, se vuoi fare il giornalista devi studiare un po’ di più”. Il giovane, diciotto anni o giù di lì e timido il giusto, incassa e con la dose di umiltà che piace al maestro che gli sta di fronte nato e cresciuto nell’incanto maledetto dei Quartieri Spagnoli che s’arrampicano verso il Corso, chiede a quale scuola deve iscriversi. Il colloquio si svolge nel salone di redazione del e Mario Riccio – è lui il maestro – replica con un tono che intanto si è fatto più dolce e più paterno: “Guagliò, devi frequentare l’Università della strada, vivere tra la gente solo così, da cronista, potrai trasmettere ai lettori, con l’articolo, le emozioni che hai vissuto. Io ho fatto così e non mi sono pentito”. Proprio come ha fatto lui. Non è dato sapere l’epilogo della storia, una delle tante vissute da Mario Riccio con la passione del militante, ma con la severità di chi è consapevole che la notizia è il culmine di una ricerca attenta che non tralascia alcun particolare, anche quello apparentemente più insignificante. Mario Riccio si era formato a quella scuola e non se n’è mai discostato, sia che scattasse una foto, sia che scrivesse un di cronaca. A ripensare al ruolo che ha svolto in circa mezzo secolo vissuti sempre e solo da cronista scrupoloso e lucido mentre la bara che lo accompagna all’ultima dimora, si allontana, la figura di Mario si ingigantisce nel ricordo e la tristezza si fa più struggente.

Eravamo in tanti stamattina al suo funerale che è stato celebrato nella chiesetta del Cenacolo al Corso Vittorio Emanuele ma, per pudore, nessuno osava alzare gli occhi verso l’altro. Il dolore è un sentimento che è giusto condividere ma deve vivere dentro di te. Mario è stato un degno rappresentante della giornalistica più numerosa e importante d’Italia formatasi nel “ventre” della città perennemente sotto i riflettori della mala e della buona cronaca e poi nelle redazioni di Paese Sera, de l’Unità e del Mattino prima di scalare l’Italia: sapeva fare di tutto, fotoreporter e cronista d’assalto ma, anche, scopritore di quelle eccellenti oggi si stringono intorno a lui che non c’è più. Per abbracciarlo e per dirgli grazie. Ho lavorato con lui al Corriere del Mezzogiorno e posso affermare in tutta coscienza che per anni il suo lavoro, come segretario di redazione, è stato fondamentale per il radicamento di quel giornale giovane che camminava accanto ad un colosso e doveva reggerne il passo. Finché c’è stato Mario Riccio a tessere la tela l’impresa è stata più facile, dopo gli spazi si sono inopinatamente ristretti. Ma questa è un’altra storia, la tiriamo fuori solo per accentuare il senso di vuoto che la morte di Mario ha lasciato. Ognuno di noi gli deve qualcosa e in queste ore abbiamo cercato di pagare il debito. Senza riuscirci, ma bagnando di lacrime le righe che scriviamo per ricordarlo a chi lo ha conosciuto e per segnalarlo ai più giovani come esempio di rettitudine professionale. Attenti, però, a non calcare eccessivamente la mano perché a Mario non sarebbe piaciuto. La sobrietà nella costruzione della notizia, che era poi rispetto dei fatti e delle persone, ha sempre scandito il suo tempo. Sia che lavorasse su trincee molto esposte come il Paese Sera e l’Unità di quegli anni, sia che regalasse pillole di saggezza – dimostrando, nel contempo, grande sagacia nell’organizzazione del lavoro – quando si trasferì al più compassato Corriere. Senza mai cambiare registro, senza mai scendere a compromessi che è una virtù rara e poco praticata. Mario l’aveva nel suo dna e ne ha fatto dono a tutti noi. Questo è il testamento che ci ha lasciato e che noi cercheremo, per quanto ci sarà dato, di onorare. Anche per rispetto alla sua memoria.
Carlo Franco

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