In una Repubblica fondata sulla burocrazia era inevitabile che anche nel calcio un elemento di irresistibile attrazione diventasse il modulo. Verrebbe da chiedersi quand’è che la tradizionale formazione, con stopper, libero, mediano di spinta, regista, laterale a sostegno (definizione cara a Sandro Ciotti insieme con ala di raccordo) sia diventata una formula matematica. Nessuno parlava di 4-4-2 quando nell’82 vincemmo i Mondiali. In realtà anche qui forse tutto è nato con Sacchi. Nel tempo è diventata un’ossessione. Un giochino che ha sempre più appassionato i calciofili con ambizioni di allenatore, cioè quasi tutti. La primazia se la contende col Fantacalcio e il toto-sostituzioni, da sempre autentica delizia e tormento del tifoso.
Non c’è verso di far capire che il modulo ha un suo valore ma in fondo è una formuletta, in campo è una questione di equilibri, coesione, amalgama, affiatamento, intensità. Più o meno lo ripetono – invano – tutti gli uomini di calcio, dagli allenatori ai calciatori.
A Napoli ormai si parla stabilmente di modulo da circa dieci anni. Si cominciò con Reja e si proseguì con Mazzarri (la memoria è selettiva ma quante polemiche perché – a dire dei soliti esperti – il buon Walter non sfruttava a pieno le potenzialità della squadra) fino all’acme raggiunto con Benitez e la sua “provocazione” di schierare due centrocampisti, in realtà gli stessi di Mazzarri. Adesso in questa melassa rischia di cadere il povero Sarri che sembra intenzionato a ripetere l’esperimento del secondo tempo di Empoli e quindi a schierare il Napoli con i numeretti del Barcellona: 4-3-3.
Il cambio modulo a Napoli ha un precedente illustre. Bisogna tornare al 2008, prima stagione degli azzurri in serie A. Partenza sciagurata con la sconfitta in casa contro il Cagliari e immediata riscossa con i cinque schiaffoni di Udine. Tante le partite “epiche”: un 4-4 all‘Olimpico di Roma e soprattutto il 3-1 in casa contro la Juventus, la serata di Bergonzi e Zalayeta. Reja sembrava il re di Napoli. Ovviamente durò poco. All’ultima giornata del girone d’andata pareggiammo 2-2 in casa con la Lazio e negli spogliatoi tra lui e De Laurentiis non volarono complimenti e carinerie.
Arrivò il mercato di gennaio e Pier Paolo Marino, tra gli altri, portò a Napoli Mannini. Venne acquistato dal Brescia come Santacroce. Fu una sciagura per il povero Reja. Dopo il pari con la Lazio il Napoli perse una partita rocambolesca a Cagliari con i sardi che segnarono due gol nel recupero. Nemmeno la vittoria per 3-1 contro l’Udinese riuscì a stemperare gli animi. E così, dopo aver perso 2-0 a Genova contro la Sampdoria, per Reja fu impossibile riuscire ad arginare il movimento del 4-3-3. “È assurdo non sfruttare le caratteristiche dei calciatori, che ci vuole? Allarga Mannini su una fascia, Lavezzi sull’altra e arretra Hamsik a centrocampo al fianco di Blasi e Pazienza. E in difesa giochiamo a quattro come si fa in tutto il mondo. Elementare Watson”.
Reja assecondò il fiume in piena. E con un San Paolo pieno (50mila spettatori) grazie ai prezzi bassi voluti dalla società per favorire la riappacificazione col suo popolo (corsi e ricorsi…), il Napoli andò incontro al suo destino. Perse 3-1 contro l’Empoli (di Malesani, Sarri non c’era ancora) che passeggiò su una squadra confusa che stentava a ritrovarsi in quel nuovo vestito. L’unico lampo fu il pareggio di Mannini proprio su cross di Lavezzi. Il San Paolo si illuse, poi nel secondo tempo – senza Zalayeta espulso con l’empolese Piccolo per un litigio al rientro negli spogliatoi – Giovinco e Pozzi ci fecero a pezzi. Terminò 1-3 con Cannavaro che provò a chiudere su Pozzi di tacco. E gli immancabili fischi del San Paolo.
Il 4-3-3 finì quel giorno. L’indomani, ovviamente, tutti quelli che avevano invocato a gran voce il 4-3-3 scrissero di suicidio tattico. La domenica successiva, a Livorno, si tornò al tradizionale 3-5-2 e ci pensò Calaiò con una doppietta a salvare il povero Reja.
Massimiliano Gallo