Ci chiedevamo dunque: il Napoli è una fede? Di certo, è qualcosa che mobilita le masse, le coinvolge in un evento biblico di chiamate e migrazioni, di trasferte rischiose dove si entra in contatto con popoli diversi, di credenze opposte. Ecco perché il presidente di una squadra è una specie di messia, di deus ex machina destinato a procurare l’estasi, a distrarre i tifosi dai problemi quotidiani, a regalargli l’illusione di un paradiso in terra, di un’esaltante comunione con i santi-giocatori, o bevitori, o consumatori di sostanze dopanti, in ogni caso al di sopra della vita ordinaria, del tran tran moglie-figli-lavoro, sostituto sano di altre perniciose distrazioni (il gioco, il crimine). Il presidente, dunque, è consapevole di portare sulle spalle il peso di un’attesa senza limiti, e cerca di adeguarvisi più o meno onestamente, spesso fingendo di crederci davvero, perché si, dài, proprio lui è l’atteso, il salvatore delle genti, il semidio che porterà la squadra a traguardi mai tagliati, col sacrificio delle proprie sostanze, della propria sicurezza, pronto a perdere i suoi beni e persino – udite, udite – il bene dei beni che è la vita. Poi, una bella mattina, il tifoso capisce d’essersi illuso un’altra volta: si accorge che la moglie è la moglie, i figli i figli, che il lavoro è sempre una fatica, e la suocera ha ancora quella faccia, quel modo inconfondibile di rovinargli la giornata. E allora urla, bestemmia, se la prende con tutti e con se stesso, comincia ad attendere, quasi senz’accorgersene, la venuta del prossimo messia e del suo profeta, pieno di schemi e sigarette.
Fabrizio Centofanti
Il ruolo del presidente e l’attesa del tifoso
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